È cresciuto a Torino. A lui è sempre piaciuta questa città elegante e misteriosa dove tutto cambia senza che qualcuno se ne accorga. Andrea e il suo amore per l’arte continuavano a crescere assieme e, terminate le scuole medie, si trovò a dover individuare un nuovo percorso scolastico. Il profumo della creatività lo trascinò all’interno di un liceo artistico. I social ancora scarseggiavano, esisteva solo Facebook e il cyberbullismo era agli albori. Il liceo si rivelò insidioso come una lastra d’acciaio bagnata; Andrea stentava a camminarci sopra: assenza di equilibrio, incapacità di stringere rapporti, non era lì che l’empatia aveva messo radici. La solitudine cominciò a tenerlo sottobraccio, perché gran parte dei suoi compagni con l’arte non aveva nulla a che fare. Per Andrea fu una grande delusione. Gli sarebbe piaciuto condividere visioni ed esperienze, invece si ritrovò maledettamente solo. La sindrome di Asperger, una delle tante derivazioni dell’autismo, porta il nome dello psichiatra austriaco che per primo la diagnosticò. Andrea ne è affetto.
Per lui era complicato distinguere una battuta spiritosa da un’offesa e allora innalzava barricate, istintivamente contrattaccava innescando una serie di perfide reazioni a catena.
Andrea non è più di qualcosa e neppure meno di qualcosa. È semplicemente altro. Il suo quoziente intellettivo è superiore alla media, Andrea ha una reattività mentale che segue una vibrazione particolare e non è semplice sintonizzarsi sulle sue lunghezze d’onda. A scuola non sopportava le battute da osteria, la rozzezza dei modi, il disordine, l’approssimazione di chi frequentava l’istituto perché “tanto una scuola vale l’altra”. Alcuni professori furono straordinari nel continuare a stimolarlo in quanto avevano compreso quello che spesso è invisibile agli occhi. Il talento. Quello era il suo biglietto da visita, nelle materie scientifiche stentava, ma le sue intuizioni artistiche rappresentavano una certezza. Anche la famiglia continuò a rimanergli accanto passo dopo passo. Mani amiche che lo hanno sempre sorretto evitando che potesse sprofondare dentro le sue angosce. Facile attaccarlo. Andrea era vulnerabile, la sindrome gli negava la possibilità di leggere i sentimenti dei suoi compagni. Per lui era complicato distinguere una battuta spiritosa da un’offesa e allora innalzava barricate, istintivamente contrattaccava innescando una serie di perfide reazioni a catena. In questa fase della sua vita, il dolore fu una costante quotidiana e il bullismo più infido, quello che non si lega a gesti clamorosi ma a piccoli dettagli che contribuiscono ad amplificare nella vittima inadeguatezza e male di vivere, lo accompagnò senza mai mollare la presa.
La perversione del bullismo e del cyberbullismo è legata alla quotidianità, alla goccia che scalfisce la roccia mirando a fiaccare la resistenza dell’altro.
Piccole schegge che si conficcavano sottopelle, lui era l’oggetto da colpire, il bersaglio preferito, e una volta individuata la preda, il giochino del dolore venne eletto a sistema. La perversione del bullismo e del cyberbullismo è legata alla quotidianità, alla goccia che scalfisce la roccia mirando a fiaccare la resistenza dell’altro. Una mattina gli venne sottratto di nascosto il telefonino e uno del gruppo decise di inviare una serie di messaggi alla ragazza di Andrea, spiegandole i motivi per cui aveva deciso di lasciarla. Ci volle del tempo per chiarire il tutto e arrivare fino al colpevole, dispersione di energie, vita condizionata, ombre che lo inseguivano. In quel periodo, fioccavano anche le offese più basse nei confronti della sua ragazza, colpevole di avere qualche chilo di troppo. Offese sparate sia attraverso i messaggi che di persona: «Stai con una cicciona di merda; lei fa schifo; bella coppia della minchia!» Erano costanti nel colpire, perché la cattiveria riesce ad essere più puntuale di un treno giapponese. Spesso con qualche stratagemma lo convincevano ad uscire assieme, ma era solo un sistema per mortificarlo e sottoporlo a quelli che difficilmente potremmo considerare scherzi.
La linea che separa uno scherzo da una vessazione è netta: si chiama sofferenza e Andrea soffriva. Razzismo significa attaccarlo perché aveva incontrato una ragazza peruviana: «Una scimmia nana, ma tu puoi andare giusto con una così», gli urlavano dietro senza ritegno.
Lo invitarono a una festa convincendolo che tutti si sarebbero presentati travestiti da barboni e quando Andrea si presentò, scoprì che indossavano tutti la giacca e la cravatta. La violenza psicologica non lascia prove e può essere facilmente annacquata attraverso le più vomitevoli opere di sdrammatizzazione, basti pensare ai classici «Era solo una ragazzata; non pensavamo che se la prendesse così tanto; non lo abbiamo mica picchiato». Concetti logori che non dovrebbero più trovare spazio, ma che ancora vengono puntualmente rispolverati come una vecchia coperta.
Arrivò il momento dell’università e fu una liberazione, finalmente arrivarono le amicizie che contano e tante conoscenze stimolanti. Risonanze creative, possibilità di comprendere e mettere a fuoco il proseguo del viaggio. Nel mezzo di questo cammino, esisteva una sola certezza: Andrea avrebbe fatto l’artista.
Più complicato capire da che parte dirigersi. Fumetti, design, architettura, pennello, scultura? Mica facile scegliere e soprattutto riuscirci. Di fronte c’era un muro. E allora vai di graffiti, emozionante il periodo del writing, bomboletta spray, vernici e poi un tuffo dentro le notti gelide e silenziose di Torino.
Le sue opere vennero subito notate e trovarono spazio sulle riviste di settore. Il nome di Andrea cominciò a circolare in fretta e il tam-tam del passaparola si confermò per l’ennesima volta la forma di marketing più potente in assoluto. L’ambiente era quello hip hop, un circuito abbastanza chiuso perché i graffiti tendono a replicarsi, quasi un circolo vizioso, e per quella mente che non conosceva stand by l’esperienza dei graffiti rappresentò una semplice tappa del viaggio. Lui aveva bisogno di concept da seguire, di sostanza, di vita vera da trasformare in espressioni artistiche; l’esercizio estetico fine a sé stesso non gli era sufficiente. Arrivò la parentesi dell’arte contemporanea, sperimentava dipingendo, cercava ovunque ispirazione, ma l’arte contemporanea è roba da élite, vive all’interno di musei e resta a debita distanza da chi si alza la mattina per andare in ufficio o in fabbrica. Lui era a caccia di esperienze contaminanti. È così che i suoi pensieri off road lo trascinarono in mezzo al campo sconnesso della street art, l’atmosfera underground gli regalò ossigeno, ma risultò troppo incentrata sul disegno, la grafica e la ricerca iconografica. La parola “ricerca” era e rimane il suo vangelo ed è così che oggi le opere di Andrea sono una sintesi di quelle esperienze artistiche.
I temi che affronta colpiscono i nervi scoperti della nostra società: dall’omofobia al cyberbullismo; dal revenge porn alla tutela dell’ambiente e poi il razzismo, la corruzione e molto altro.
Non è possibile etichettarlo come un pacco postale, lui è fluido, un artista 2.0, perché il web è divenuto il suo museo allargato. La parte materiale dei lavori di Andrea ha vita breve, sono fiori d’inverno che nascono e muoiono nello spazio di un paio di giorni. Ci pensa poi il vento della rete a sollevare le sue opere come fossero aquiloni, trascinandole in giro per il mondo. I temi che affronta colpiscono i nervi scoperti della nostra società: dall’omofobia al cyberbullismo; dal revenge porn alla tutela dell’ambiente e poi il razzismo, la corruzione e molto altro.
Dicembre 2020.
Intervisto Andrea Villa, che non è Andrea Villa, specchiandomi dentro un volto, che non è un volto. La vera identità di questo artista a cui attribuiamo vent’anni, ma che non sono venti, è segreta come quella di Banksy, writer inglese ed esponente massimo della street art nel mondo. Molti li accostano in quanto accomunati dal forte spirito critico e dall’anonimato, ma artisticamente hanno poco in comune. Osservo Andrea attraverso una videochiamata e inevitabilmente mi specchio nella sua maschera in stile Daft Punk; mi spiega che la ricerca di quella copertura è stata laboriosa, ma il senso è chiaro: quella maschera riflette il mondo in cui viviamo, chiunque, osservandolo, può specchiarsi e osservare i riverberi di questa società.
«Molti affermano di essere a disagio e di non comprendere se io li stia guardando, e anche questa metafora ha molto a che fare con il nostro sistema mediatico, perché non riesci mai a capire su cosa stia puntando». Anche il suo abbigliamento composto da maschera e felpa con cappuccio alzato sulla testa è parte di una performance che non smette mai di essere tale, perché come dice lui stesso con il suo intercalare fresco e rapido: «L’arte è da sempre simbologia».
Ha una grande cultura, Andrea; mi sorprende la sua preparazione e soprattutto la forza dei suoi pensieri. Mi racconta che ai tempi del liceo artistico era infastidito dai quelli che in attesa dell’autobus si accampavano seduti sul marciapiede come una tribù di indiani. La precisione è per lui quasi una necessità insopprimibile. Conduce una vita più che regolare, rispetta orari, mangia sano, detesta la droga e continua a sviluppare idee. Non comprende gli artisti che si buttano via scivolando dentro vite dissolute, a lui piace essere calato direttamente nella realtà; nessun filtro, Andrea funziona così.
Le sue battaglie mirano alla costruzione di un mondo più umano e le sue opere raccontano ingiustizie e soprusi.
Complicato essere Andrea Villa e nello stesso tempo mantenere viva l’altra parte di lui, quella che ha un volto reale e una carta d’identità, un po’ come il vecchio Zorro. La spada di Andrea si chiama concept e poi, una volta realizzata l’opera, con una stoccata, la mostra al mondo posizionandola nel cuore di qualche città. Sono manifesti mai volgari che graffiano le nostre coscienze. Nulla di violento, tutt’altro. Le sue battaglie mirano alla costruzione di un mondo più umano e le sue opere raccontano ingiustizie e soprusi. Il web rappresenta il suo habitat naturale, per questo lui continua a lottare affinché la rete possa ripulirsi, scrollandosi di dosso haters e forme di violenza che vagano nell’aria come il più lercio dei virus.
Naturalmente, come delle iene, gli haters iniziarono a massacrare la giovane maestra seppellendola sotto i loro giudizi.
Combattere il cyberbullismo per Andrea è pane quotidiano. Nel 2018 una giovane maestra torinese rimase stritolata da un caso di revenge porn. Il suo ex, come fossero noccioline, pensò di offrire agli amici del calcetto ventotto foto intime e due video hard che ritraevano la ragazza. In pochissimo tempo, foto e video comparvero su migliaia e migliaia di display e non esiste alcuna forma di tutela che possa proteggerci da questo genere di attacco. La ragazza, disperata, si rivolse alla dirigente scolastica, ma non trovò traccia di solidarietà. Tutt’altro. Per l’ennesima volta, la vittima venne trasformata in colpevole perché tutto sommato “lei se l’era andata a cercare”. Pochi valutarono il fatto che la ragazza non aveva commesso reati, che era stata tradita la sua fiducia e violata in maniera devastante la sua privacy. Naturalmente, come delle iene, gli haters iniziarono a massacrare la giovane maestra seppellendola sotto i loro giudizi. Gli odiatori seriali quando colpiscono lasciano nomi e cognomi, ignari di calpestare leggi ed esseri umani. Il loro, è quasi un odio compulsivo.
Trascorre del tempo, così, ai primi di dicembre, si torna a parlare della vicenda perché la docente, che venne praticamente obbligata a licenziarsi, si deve presentare in tribunale per deporre. Andrea decide di agire: attraverso Instagram invita le docenti italiane a inviargli delle foto di nudo, ovviamente tutelandone la privacy. La solidarietà è tanta e Andrea riceve moltissime immagini. Il meccanismo della campagna è sempre lo stesso. Il due dicembre, Torino si sveglia con tre manifesti posizionati in luoghi strategici. Sono immagini di nudo molto belle, nulla di offensivo. I poster sono accompagnati dalla frase «Teachers do sex» (le maestre fanno sesso).
Ancora una volta Andrea colpisce nel segno, i giornali pubblicano le foto che immediatamente rimbalzano sui social e fanno il giro del mondo, alimentano un dibattito, illuminano zone d’ombra. «Siamo circondati da immagini di nudo, non ci facciamo neppure più caso, eppure se invece che una modella compare un’insegnante, se ne parla in tutto il pianeta; piuttosto strano, non trovi?» Parla veloce Andrea e il desiderio di contribuire a trasformare la rete in un luogo libero e sicuro è un qualcosa che lo ossessiona.
Gli chiedo come mai abbia scelto lo pseudonimo di Andrea Villa e mi spiega che tutto è nato dall’errore di un quotidiano che attribuì una sua opera a tal Andrea Villa che invece si era semplicemente limitato a fotografarla. Un malinteso. «Sai, ho fatto mio quel nome, dicono che una menzogna se ripetuta mille volte finisca con il diventare una verità; anche questo vuol dire sperimentare le dinamiche della comunicazione». Rimango ad ascoltare Andrea per oltre un’ora, le sue storie sono coinvolgenti, calde, mescolano tra loro forme di arte e chiavi comunicative e cavalcano la rete con intelligenza.
Penso sia veramente un artista 2.0 esterno a qualsiasi schema o strategia commerciale.
Mi spiega che in futuro probabilmente non sarà più necessario esporre le foto in strada, basterà ricostruire la scena con photoshop e renderla virale. «Questa è la forza della rete, caro Luca; io grazie a Instagram vendo opere a collezionisti di tutto il mondo, il web è la nuova frontiera e siamo solo agli albori del percorso. Per questo è fondamentale educare i ragazzi all’uso corretto e consapevole della rete. Non esiste lavoro che non possa trarre benefici da questo rivoluzionario strumento». Ci salutiamo, ripenso alle sue parole, al bullismo, al dolore e al talento. Dovrebbe parlare più spesso con i ragazzi Andrea, lui è un perfetto interprete in maschera della nostra realtà. Proprio come nelle favole.