La storia di

Aalim

La mia storia è complicata, assomiglia a una commedia in tre atti. Intanto lascio che a parlare sia la mia pelle. Аалим. Questo tatuaggio è sopra il cuore. In cirillico vuol dire “Aalim”. Sulla parte destra del petto invece ho tatuato Арина. Significa “Arina” che è il nome di mia sorella.

Ascolta questa storia raccontata da Luca Pagliari

Atto primo: Il lupo solitario.  

Aprile 2015. 

Non avevo mai visto un aeroporto di persona, ma solo nei film. Seguiamo diligentemente quei due signori camminando in mezzo alla gente, sono loro che mostrano i nostri documenti a dei poliziotti; fosse per me scapperei via come ho sempre fatto quando vedevo gente in divisa, ma questa volta mi trattengo e aspetto, anche se il cuore batte forte. Alla fine saliamo sull’aereo. Di quel viaggio dalla Siberia all’Italia ricordo la mano di Arina stretta tra le mie, una moneta portafortuna nella tasca del piumino e il sorriso dei nostri nuovi genitori. Si sforzavano di sorridere in continuazione, ma io lo capivo che erano molto nervosi. Immaginavo che stessero usando parole rassicuranti, ma non conoscevo la loro lingua e il nostro silenzio non era poi di grande aiuto. Io dodici anni e mia sorella sette. Non avevo la minima idea di cosa fosse l’Italia, sapevo solo che non era freddo ed era circondata dal mare. 

I primi giorni nella nuova casa furono di studio: annusavo tutto, osservavo gli oggetti evitando di toccarli e tutte le mattine, nonostante quella donna che dovevo imparare a chiamare «mamma» mi dicesse di stare fermo, spazzavo il pavimento della camera e rifacevo il letto verificando che la coperta non facesse neppure una grinza. Ci volle anche del tempo per comprendere che ogni notte non dovevo nascondere le scarpe da qualche parte e tenere i soldi dentro gli slip. 

L’estate ebbi modo di vedere il mare e di farci anche il bagno, intanto il vocabolario iniziava ad arricchirsi di parole nuove, però ancora la parola “mamma” non riuscivo a pronunciarla, più facile dire «papà» in quanto non ne avevo mai avuto uno. Arrivò il momento di cominciare la scuola. Mi iscrissero alla prima media, anche se avrei dovuto frequentare la seconda. Non avevo troppi discorsi da fare, preferivo guardare le cose che accadevano rimanendo a debita distanza dagli altri e spesso risultavo scontroso e poco disponibile; ero considerato un freddo, distante e sconosciuto, come la Siberia da cui provenivo.

Non provavo simpatia per i compagni di scuola, ridevano per niente e avevano tutti uno smartphone nuovo nello zaino. Notai che quasi sempre indossavano vestiti diversi e le scarpe non avevano neppure un buco. La donna (mamma) a Natale decise di regalare anche a me uno smartphone e la prima cosa che feci fu andare a controllare che tempo facesse nella mia città. La webcam appannata mostrava in diretta la piazza grande. Solo ghiaccio, un albero di Natale sul lato destro e la statua di Lenin al centro. Il termometro segnava 24 gradi sotto lo zero. Che ne sapevano gli altri di quella città? Nessuno, professori compresi, aveva la minima idea di cosa significasse per me quell’immagine. A scuola la lingua che parlavo meglio era quella del silenzio. La mia diffidenza molti la interpretarono come un segno di altezzosità, quasi volessi sempre rimarcare la mia diversità nei loro confronti.

Con il passare del tempo anche io iniziai ad usare lo smartphone come fosse un coltello, soprattutto per sfottere quelli che ritenevo più deboli.

Quando nei vari gruppi WhatsApp iniziarono a chiamarmi «mozzarella» a causa della mia carnagione chiara ne fui quasi contento. Mi avevano regalato il pretesto per rimanere distante. Da una parte, questo mi faceva soffrire e soffrire era la cosa che mi riusciva meglio nella vita sin da quando ero nato. Con il passare del tempo anche io iniziai ad usare lo smartphone come fosse un coltello, soprattutto per sfottere quelli che ritenevo più deboli. Qualcuno rideva di quelle mie “sparate”, ma io non avevo bisogno di seguaci, continuavo a rimanere il solito lupo solitario. Mi piaceva molto l’idea del lupo solitario perché io li avevo visti veramente i lupi scorrazzare a due passi dal vecchio quartiere dove avevo trascorso la mia infanzia. Non avvertivo il bisogno del branco, preferivo muovermi in autonomia. 

Se pensate che alla fine di questa storia riuscirete a comprendere chi è la vittima e chi il carnefice, potete già smettere di leggere; comunque andiamo avanti. Con i compagni di classe il rapporto rimase molto complicato per tutto il periodo delle medie. Cosa non andava? Ancora non potevo saperlo, semplicemente non andava. Intanto avevo iniziato a chiamare la donna per nome, Gabriella. Aveva capito che non era il caso di insistere troppo sulla parola “mamma” e tutto sommato averle già dato un nome di battesimo era già qualcosa. 

Per Arina, il centro della mia vita, le cose invece andavano molto meglio. A scuola si era fatta molte amiche e poi tutti dicevano che nella ginnastica artistica avrebbe potuto fare molta strada. Gabriella e papà erano fieri di quella bambina arrivata dal gelo della Siberia che sapeva riscaldarti sempre il cuore distribuendo sorrisi come caramelle a Carnevale. Era dura la sua vita. Scuola e allenamenti, ma tutto ciò la rendeva felice. Io avevo occhi celesti e capelli biondi e sottili, lei era l’opposto, occhi grandi e neri, due fanali che illuminavano qualsiasi cosa guardasse. Una sera mentre ero in camera, sentii Gabriella e papà che parlavano di noi due; certe parole quando le ascolti non puoi più dimenticarle: «Magari il padre di Arina è italiano – disse mamma – anche se mi sembra impossibile che in quel posto possa esserci arrivato uno di noi». Papà le rispose così: «Che ne sai? Gli italiani arrivano da tutte le parti, di certo il padre di Arina e quello di Aalim non hanno niente in comune, a parte la madre». 

Ascoltai tutta la conversazione e smisi quasi di respirare. A volte è tutto così chiaro e semplice, la verità ce l’hai sotto gli occhi ma non riesci a vederla. Non avevo mai preso in ipotesi l’idea che io e Arina fossimo figli di padri diversi, ora avevo scoperto anche questo. Nella mia immaginazione era sempre esistito un solo e unico padre invisibile, quasi una specie di misteriosa leggenda. 

A casa erano molto preoccupati dei miei silenzi e della mia incapacità di integrarmi in un gruppo. Spesso mi rifugiavo in camera e trascorrevo molto tempo girovagando online. Le cose sono peggiorate quando ho iniziato le scuole superiori: ho scelto un istituto tecnico senza un motivo preciso. Lo so che è sbagliato scegliere a caso e so anche che tutti pensano che chi frequenta un professionale sia uno sfigato. È una cazzata, perché nel mio istituto se hai voglia di studiare puoi andare avanti nella vita. 

Mi sentivo inadeguato, diverso e molto incazzato. La rabbia dai dodici ai sedici anni è stata la mia grande compagna.

Avevamo una chat di classe ed è in quel mondo virtuale che io iniziai a mostrarmi in maniera sempre più strafottente, pronto a contestare le cose, a giudicare, a criticare qualsiasi situazione. Lentamente gli altri iniziarono a isolarmi, ma in fin dei conti ero io stesso l’artefice di tutto ciò e di questo quasi me ne compiacevo. Volete sapere come vivevo? Male. Non riuscivo a tollerare la superficialità dei miei compagni, la loro allegria e soprattutto la loro spensieratezza. Mi sentivo inadeguato, diverso e molto incazzato. La rabbia dai dodici ai sedici anni è stata la mia grande compagna. Mica la vedi la rabbia, la senti dentro, ti esplode nel petto all’improvviso e allora la scarichi sugli altri come fosse un fulmine. Fu così che in chat venni completamente lasciato al di fuori di tutto. 

Scoprii poi che era stata creata una chat parallela che utilizzavano per organizzare partite di calcio a mia insaputa e all’interno della quale potevano liberamente parlare male di me. Questo non fece altro che amplificare la mia rabbia. Sui social mi trovavo spesso a postare immagini dure e a scrivere commenti estremi su qualsiasi argomento. Un giorno papà e mamma mi proposero di iniziare una psicoterapia, ma rifiutai con decisione. Io non avevo bisogno di nessuno e se gli altri avevano pensato di isolarmi sia online che in classe, meglio così. Avevo anche smesso di giocare a pallone senza un motivo preciso; ricordo che l’allenatore ci rimase male e mi chiese di motivare quella scelta. Gli avrei voluto rispondere che era stata una provocazione, una maniera per verificare quanto fossi ritenuto importante da lui e dalla squadra, ma le parole decisero di non uscirmi di bocca, quindi rimasi in silenzio. Lui attese con pazienza che pronunciassi almeno una mezza parola, ma io non ci riuscii. 

Alla fine si alzò dalla panca dello spogliatoio e mi disse semplicemente: «Se dovessi ripensarci, noi siamo qui». Apprezzai tantissimo quelle parole, ma ovviamente non lo diedi a vedere. Quella sera scrissi un post che raccontava tutta un’altra storia: «Il calcio mi ha rotto le palle. Da oggi, libero!». La mattina successiva buttai nel bidone dell’indifferenziata le scarpette e poi con un pugno sfondai l’anta dell’armadio in garage. 

Attorno, con pazienza, mi ero costruito un muro e la sola fonte di luce era rappresentata da mia sorella Arina. Nei suoi confronti abbassavo sempre le difese e mi sforzavo di sorridere, ero forse fin troppo protettivo. Fu in quelle giornate che alcuni ex compagni della squadra di calcio scrissero sui social che finalmente nello spogliatoio si stava più larghi. Senza pensarci neppure un secondo commentai il loro post, aggiungendo che stare alla larga da loro la consideravo una liberazione. 

In tutto questo c’era una prof che sembrava essere un po’ diversa dagli altri, mi sorrideva sempre. Io non contraccambiavo, ma quella cosa mi faceva molto piacere. Era come se lei mi sapesse leggere dentro, avvertivo una sorta di complicità. Con lei non c’era bisogno di parlare e quasi senza rendermene conto iniziai ad attendere con ansia che entrasse in classe. Insegnava italiano. 

«Lo so che arrivi dal grande freddo siberiano, sono posti per gente coraggiosa!». Quella frase mi arrivò dritta al cuore, era come se lei fosse riuscita a sbirciare oltre il muro che mi ero costruito attorno.

La situazione era divenuta abbastanza chiara. Non potevo considerarmi un cyberbullo, ma neppure un bullizzato. Ero un diverso. Da quando avevo cominciato a fare palestra il mio fisico si era progressivamente trasformato. Quasi tutti i giorni postavo foto dei miei addominali che sembravano scolpiti. Spesso era Arina a scattarmi le foto in camera e una delle poche volte che nevicò, mi feci fare una serie di scatti a torso nudo sulla neve. Fu così che scoprii che la prof mi seguiva su Instagram, perché il giorno successivo mi chiese se non avessi paura di prendermi una polmonite. Risposi semplicemente che il freddo rafforza. Lei ascoltò e poi aggiunse: «Lo so che arrivi dal grande freddo siberiano, sono posti per gente coraggiosa!». Quella frase mi arrivò dritta al cuore, era come se lei fosse riuscita a sbirciare oltre il muro che mi ero costruito attorno. Nel dicembre del 2019, assieme a tutta la classe, ci ritrovammo dentro a un cinema-teatro. Pensavo fosse una delle solite mattine dedicate al nulla e mi sistemai rigorosamente nelle ultime file. Si parlava di bullismo e cyberbullismo. 

Lentamente compresi che quell’incontro era altro, nessuno veniva giudicato, sembrava stessero parlando di me e del mio autoisolamento. Quando poi venne utilizzata l’espressione “lupo solitario” mi sentii quasi direttamente coinvolto da quella strana manifestazione. Nessuno si era permesso di dare consigli, avevo ascoltato storie di altri “lupi solitari”, storie pesanti di solitudine e di cattiverie in rete, perché quello è il terreno dove oggi si combattono le battaglie più feroci. Uscii dal cinema abbastanza frastornato e la prof mi affiancò fino alla scuola. Parlò senza guardarmi, mi disse che forse, visto che ognuno avrebbe dovuto sviluppare un lavoro basato su quanto visto e sentito, quella sarebbe potuta essere l’occasione giusta per tirare fuori tutto. Non specificò cosa, disse semplicemente «tutto». I primi di febbraio 2020, al cinema-teatro ci sarebbe stato un altro incontro dedicato alla visione dei nostri lavori. 

Vorrei vederti fuori da quella maledetta gabbia. Perché non sfrutti la possibilità di salire sul palco e raccontare a tutti la tua storia?

Qualche giorno prima delle vacanze di Natale, la prof mi chiese di rimanere in aula dopo il suono della campanella, era l’ultima ora. Accettai senza problemi. «Sai Aalim –disse la prof– tu scrivi molto bene, il tuo problema è che non riesci mai a uscire dalla gabbia che ti sei costruito attorno; ricordati che i lupi solitari hanno bisogno di spazio. Vorrei vederti fuori da quella maledetta gabbia. Perché non sfrutti la possibilità di salire sul palco e raccontare a tutti la tua storia? Non conosco il tuo passato e quindi scusami se mi permetto di entrare così diretta nella tua vita, ma io vorrei conoscere fino in fondo il tuo coraggio, ho la sensazione che tu ne debba aver tirato fuori parecchio». 

Se questo fosse un film, nella scena successiva mi si vedrebbe di fronte alla tastiera tutto preso a scrivere la mia storia, la realtà invece è diversa. Inizialmente scartai quell’ipotesi, ma poi l’idea di raccontare divenne quasi un’esigenza. Le idee prendono forma, crescono, si modellano e poi esplodono. Durante le vacanze di Natale, una mattina, senza averlo previsto, aprii il PC e cominciai a scrivere. Nessun punto di arrivo. Avrei scritto fino a quando ne avessi avuto voglia, ci sarebbe stato tempo per capire cosa fare di tutte quelle parole. 

Finalmente arrivò febbraio ed esattamente come prima delle feste, ci ritrovammo tutti nel cinema-teatro. Avevo il cuore che batteva fortissimo, la prof lo aveva capito e mi aveva incoraggiato con uno sguardo. La mattinata ebbe inizio, alcune classi avevano realizzato dei video, altre dei disegni e poi alla fine toccò a me. Mentre salivo sul palco mi resi conto che oramai, giusto o sbagliato che fosse, non avevo più alternative. Mi avvicinai al microfono, respirai profondamente un paio di volte e iniziai a leggere. 


Atto secondo: La prima vita. 

Kemerovo si trova nella Siberia sud-occidentale ed è lontana da tutto; Mosca è a oltre tremila chilometri. La sola cosa che a Kemerovo non ti abbandona mai è il gelo. L’inverno è lunghissimo e l’ago del termometro oscilla sempre tra i meno venti e i meno quaranta gradi. Io ho otto anni e mia sorella Arina ne ha tre, viviamo al settimo piano di un palazzo di periferia. C’è un fornello a gas, un divano sfondato con mille buchi provocati da mozziconi di sigarette e una dispensa sempre vuota. Dormiamo su un vecchio materasso, mamma invece ha un letto vero. Raramente usciamo fuori, troppo freddo e poi non ci sono giochi. Certi giorni il riscaldamento non funziona e allora io e Arina rimaniamo abbracciati sotto la coperta per scaldarci a vicenda. Se mi lamento, mamma risponde che il freddo rafforza e la storia finisce lì. 

Io ho fame, intanto mamma spiega che dobbiamo nasconderci bene: «Conto fino a cinquanta e vi vengo a cercare».

Una mattina mamma dice che andremo a giocare a nascondino. Perché giocare a nascondino mentre nevica? Lo penso ma non domando nulla perché non ho voglia di prendermi un pugno o un calcio. Ho imparato che se sto zitto riesco a sopravvivere meglio. Quella mattina, mamma si era scordata di prepararci la colazione, avevo protestato, ma la sua unica urgenza fu di vestirci e portarci in un parco dove non eravamo mai stati. Infilo due paia di calzini nei piedi e uno nelle mani al posto dei guanti, ma si gela lo stesso. Arina piange anche se dal freddo non escono lacrime, invece il muco le si è congelato tra il naso e la bocca. Arina ha un piumino troppo grande che un tempo era stato bianco. Io un giaccone che invece è troppo piccolo, ma è l’unico che possiedo. Ci fermiamo vicino a un boschetto. Terra gelata, rami ghiacciati e nevischio che continua a cadere. Neve e ghiaccio ricoprono le uniche due panchine. Io ho fame, intanto mamma spiega che dobbiamo nasconderci bene: «Conto fino a cinquanta e vi vengo a cercare». 

Lei inizia a contare rimanendo in piedi a occhi aperti ma senza guardarci. Prendo Arina per mano e comincio a correre alle spalle di mamma senza sapere bene dove nascondermi. Ci accovacciamo dietro a due alberi giganteschi, ci appoggiamo sulle radici e cominciamo ad aspettare. Non mi piace questo parco vuoto e non ho voglia di giocare a nascondino. Le ginocchia mi fanno male e Arina ricomincia a piangere. Le dico di stare zitta sennò mamma ci trova e allora lei smette, però mamma non viene a cercarci dalla nostra parte. Aspetto ancora, ci sono abituato perché lei ci lascia spesso a casa da soli per giornate intere, a volte la notte neppure rientra. Infine, non resisto e mi sporgo piano piano oltre il tronco. Mamma non la vedo, non c’è nessuno. Forse ci sta cercando dall’altra parte del parco, meglio aspettare. Mi accuccio ancora sulla radice, ma se stai troppo fermo il freddo ti entra dentro e non ti abbandona più. Prendo Arina per mano e adesso siamo noi che iniziamo a cercare mamma. Forse abbiamo capito male, dovevamo essere noi a contare fino a cinquanta e lei si è nascosta, così comincio a chiamarla, ma non risponde nessuno. 

Ho paura, iniziamo a camminare e alla fine troviamo l’uscita dal parco. Tutto è in bianco e nero, i palazzi, il colore del cielo, il fumo che esce dai camini, il piumino di Arina. Giriamo per molto tempo, ma la mamma non sappiamo che fine abbia fatto. Abbiamo fame, entriamo dentro un forno e chiediamo se possono regalarci una pagnotta perché siamo senza colazione e non sappiamo dove sia finita nostra madre. La donna è gentile, taglia a metà uno sfilatino e ce lo incarta. Mi regala anche una moneta e dice che bisogna chiamare la Polizia. Rispondo che va bene ma quando entra nel retrobottega per telefonare, prendo Arina per mano e ce ne andiamo di corsa. Ho già visto tante volte la Polizia a casa e sono sicuro che mamma passerebbe altri guai. 

Ci spostiamo per la città senza un’idea precisa. La notte arriva all’improvviso e dopo esserci procurati ancora del pane in un altro forno, ci infiliamo dentro alla stazione ferroviaria. Ci addormentiamo su una panca di legno e per fortuna fa caldo. La gente non ha tempo per accorgersi di due bambini e così trascorriamo tutta la notte lì dentro. Per una settimana continuiamo a vagare per la città e poi la sera torniamo alla stazione dove ci sono anche i gabinetti e i lavandini. Ogni volta cambiamo panchina per dare meno nell’occhio, poi abbiamo imparato un altro sistema per procurarci da mangiare: entriamo in un negozio e io dico subito che mamma sta per arrivare, intanto, Arina comincia a piangere e chiede di essere accompagnata a fare la pipì, io nel frattempo nascondo sotto il giaccone qualcosa che ci riempia lo stomaco. Siamo diventati bravi a raccontare bugie e a scappare di corsa. Iniziamo a conoscere meglio la città, il nostro riferimento è la piazza grande, poi da lì sappiamo come muoverci. 

Una mattina, in mezzo a un mercato della verdura, ci fermano due poliziotti, provo a inventarmi la scusa che stiamo aspettando mamma, loro però non ci credono e ci trasportano al commissariato. Mamma la conoscono bene perché si droga ed è schedata. Ero abituato a vedere gente dentro casa, spesso si addormentavano anche per terra e allora io me ne stavo nella mia stanzetta piccolissima. A volte erano solo uomini che si chiudevano con mamma nella sua camera da letto; noi avevamo l’obbligo di non bussare e di rimanere sul materasso. Avevamo una vecchia tv ma si vedeva solo un canale. Quando nacque Arina passavo il tempo raccontandole favole, meglio che niente. Vivevamo così, senza una regola e ogni tanto saltavamo il pranzo o la cena. Stavamo bene perché non avevamo idea che potesse esistere altro. Più o meno la nostra vita è andata avanti così fino al giorno del nascondino. 

Al commissariato ci tengono per molte ore dentro una stanza calda, ci danno anche il tè e dei biscotti e alla fine una macchina ci porta in un posto che si chiama orfanotrofio. Un uomo ci obbliga a fare la doccia e poi ci separano. Arina piange, ma qui dentro i maschi non possono stare con le femmine anche se sono fratelli. Ci dicono che è possibile vedersi solo durante il giorno, ma la mattina scopro che è una bugia perché Arina è finita in un altro orfanotrofio e io mi sento come se mi avessero tolto il cuore nascondendolo da qualche parte. Mi comunicano senza troppi giri di parole che mamma è in carcere e siccome non abbiamo nessun altro al mondo dobbiamo rimanere separati nei due istituti. 

La vita in orfanotrofio è brutta. Hai poca libertà. Devi rifarti il letto in maniera perfetta e poi se possiedi qualcosa lo devi sempre nascondere, perché quelli più grandi la notte rubano tutto. Dobbiamo anche fare dei lavoretti; ci sono i turni per pulire i gabinetti e passare lo straccio sul pavimento. In certi orari possiamo andare nella sala giochi e per qualsiasi cosa devi sempre chiamare il responsabile perché lui ha le chiavi degli armadietti. Si mangiano zuppe in continuazione ed è vietato lasciare qualcosa nel piatto. Il sabato mattina possiamo fare la doccia e a pranzo ci servono il dolce. 

La cosa importante è essere adottati entro i diciotto anni, altrimenti ti ritrovi in mezzo alla strada senza neppure un soldo in tasca.

Quando ci fanno pettinare per bene e ci dicono di indossare i vestiti migliori è perché ci scattano le foto. Ci teniamo tantissimo ad essere belli e sorridenti perché dicono che quelle foto finiranno nelle mani di chi vorrà adottarci. Sappiamo tutto sulla trafila ed è molto lunga. Da quando vieni scelto, passano ancora mesi e mesi prima di abbandonare la struttura. La cosa importante è essere adottati entro i diciotto anni, altrimenti ti ritrovi in mezzo alla strada senza neppure un soldo in tasca. All’orfanotrofio non esiste una vera scuola, ci sono degli istitutori che ci fanno lezione, ma non abbiamo mai nessun contatto con dei bambini che vivono fuori dalla struttura. 

È così che ho trascorso dodici anni della mia vita; prima sopravvivendo in una casa degli orrori e poi rinchiuso dentro un orfanotrofio sognando tutti i giorni di poter riabbracciare mia sorella e continuando a sperare che qualcuno mi portasse fuori da lì dentro. 

Avevo undici anni quando mi comunicarono che una famiglia italiana era disponibile all’adozione, mia e di mia sorella. Provai molta felicità, perché spesso i fratelli rimangono separati per sempre e a volte non si rivedono più. Incontrai i due signori varie volte, sapevo solo che avevano fatto un viaggio lunghissimo per venirmi a vedere e raccogliere gli oltre cento documenti necessari per completare la richiesta di adozione. 

Quando è arrivata la mia giornata, mi hanno fatto spogliare; ero completamente nudo e ho indossato i vestiti che mi avevano portato i nuovi genitori. Erano dentro una borsa da palestra blu. Due giorni dopo andammo a prendere Arina. Non la vedevo da più di tre anni. Quello resta il giorno più bello della mia vita. Non è stato un abbraccio, ma un corpo che ritrovava l’altra sua metà tornando ad essere una cosa sola. 

Poi quell’aeroporto e il soldo conservato in tasca. Quello che anni prima mi aveva regalato la donna del panificio. Ed ora eccomi qui. 


Atto terzo: La liberazione. 

Finalmente arrivai alla fine della lettura. Il teatro rimase prigioniero di un silenzio quasi insopportabile e poi dal nulla prese vita un lunghissimo applauso. Non piansi neppure per un istante, ma compresi che il lupo era finalmente uscito dalla gabbia. Mi sentii molto leggero e stanco, riuscii a respirare e ad alzare lo sguardo verso quella platea di studenti. 

Ho trovato la forza di guardare in faccia il mio passato e da quando ho deciso di condividerlo la rabbia è svanita.

Nei giorni successivi molti compagni mi chiesero scusa e io feci altrettanto. Purtroppo, la pandemia ha rallentato tutto, ma ho deciso di tornare a giocare al calcio. Quando ho inviato con WhatsApp il mio racconto all’allenatore, lui mi ha chiamato subito dicendomi che il mio vecchio posto da difensore centrale mi stava aspettando. Ho trovato la forza di guardare in faccia il mio passato e da quando ho deciso di condividerlo la rabbia è svanita. Durante la didattica a distanza, attraverso Internet ho fatto vedere ai compagni di classe, in diretta con le webcam, la mia città. Quel giorno la temperatura era di diciassette gradi sotto lo zero. 

Ho smesso di usare la rete per sfogarmi, conosco meglio l’uso delle parole e soprattutto conservo la frase che mi ha scritto sui social un compagno di classe, uno di quelli con cui proprio non mi prendevo: «Ciao Aalim, mi hai insegnato che nessuno può giudicare nessuno. Grazie!» 

Bullismo e cyberbullismo, secondo me, nascono proprio da quella mancanza d’amore e di comprensione per l’altro.

È così che stanno le cose. Spesso odiamo, condanniamo, deridiamo e ci dimentichiamo di conoscere chi abbiamo di fronte, eppure basterebbe semplicemente alzare lo sguardo e parlare. Ecco, io dopo quella mattina in teatro ho imparato ad alzare lo sguardo. Tutti abbiamo una storia alle spalle che bella o brutta che sia ci dovremo portare dietro per sempre. Ora siamo bloccati dal virus, ma è l’assenza d’amore il male peggiore. Bullismo e cyberbullismo, secondo me, nascono proprio da quella mancanza d’amore e di comprensione per l’altro. In futuro vorrei viaggiare molto, perché qualcosa degli spazi sconfinati della mia terra mi scorre nelle vene. 

L’altra sera ho guardato in tv “Into the Wild”, la storia vera di un ragazzo statunitense che voleva andarsene in Alaska, un ribelle, un altro lupo solitario. L’Alaska ricorda molto alcune zone selvagge della Siberia. Si chiamava Chris McCandless e morì da solo all’interno di un bus abbandonato dopo aver ingerito per sbaglio delle bacche selvatiche. Nella scena che precede la sua morte, con una calligrafia incerta e leggermente sgrammaticata, Chris trova la forza di scrivere sul suo taccuino: «Happiness only real when shared». 

La felicità è reale solo quando condivisa. 

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