Sono le undici di mattina e mi sembra di vivere dentro un sogno, sono sbarcata con il traghetto alle otto ed ora eccomi qui, con un pass al collo, un completino bianco e i miei occhiali da sole da diva degli anni ’60. Mi piacciono tanto questi occhiali, perché mi ricordano alcune foto di mamma quando era più giovane. Ieri sera papà ci ha accompagnate da Nuoro a Cagliari e poi ci siamo imbarcate; scrivo siamo, perché in questo viaggio che assomiglia a una favola, assieme a me ci sono mia sorella Giorgia che ha vent’anni, esattamente cinque più di me, mia madre Rosanna e persino mia nonna. È energica nonna, forse perché un tempo la vita richiedeva più coraggio e bisognava fare i conti con una realtà dura come la pietra. Sono emozionata perché è la prima volta che vengo in Sicilia e perché su quel palco ci saranno tanti cantanti che amo, da Mika a Ghali, da Mahmood a Fabrizio Moro e altri ancora.
Il problema è che su quel palco dovrò salirci anche io e questo, a dire il vero, non mi rende assolutamente tranquilla. C’è poi un altro aspetto da considerare, ed è quello più doloroso. Io non sono qui per cantare, ma per raccontare una storia. La mia. E allora se penso alle reali motivazioni che mi hanno portato in questo angolo della Sicilia, mi viene quasi da piangere, perché il dolore lo esorcizzi con il passare del tempo, cerchi di fartelo amico e di guardarlo negli occhi, ma sempre dolore resta. Stanno finendo di allestire il palco, ai suoi lati ci sono due immensi schermi ed io ci cammino sotto, accompagnata da Giorgio di “Radio Italia Solo Musica Italiana” e da Luca, il giornalista, ma soprattutto la persona e l’amico a cui ho affidato la mia storia.
Terribile vivere con addosso la sensazione che non esista una soluzione ai propri problemi.
Ho solamente quindici anni, o forse dovrei dire tredici, in quanto quasi due anni li ho trascorsi in mezzo a un labirinto, perché è lì che mi avevano trascinato. È stato talmente complicato e doloroso muoversi nel buio di quel posto, che nei momenti di massimo sconforto arrivai anche a pensare che il labirinto non avesse un’uscita. Terribile vivere con addosso la sensazione che non esista una soluzione ai propri problemi. Si tratta di un tipo di angoscia che prima si appiccica alla pelle e poi ti entra dentro impossessandosi di ogni tua cellula. Non è facile descrivere questo dolore, però vi garantisco che toglie il respiro.
Mi sposto alla destra del palco e osservo il mare di Palermo mentre un traghetto sta facendo il suo ingresso in porto. Cammino e penso che un concerto così bello avrei preferito godermelo dal prato e non dal palco, comunque va bene così, in fin dei conti questa è una grande occasione per iniziare a riprendermi ciò che mi è stato sottratto. Non tutte le vittime di bullismo e cyberbullismo hanno opportunità del genere, e soprattutto ho voglia di aiutare tanti ragazzi che ancora si muovono dentro il labirinto cercando quella famosa uscita. Io ne sono venuta fuori, a fatica, facendomi aiutare, ma ce l’ho fatta. E se ci sono riuscita io, possono farcela anche gli altri, basta sapere che tutti i labirinti del mondo possiedono un’apertura verso la luce e la libertà. È importante procedere accompagnati e non stancarsi mai di cercarla. Quando mi gettarono in quel luogo oscuro, ancora non avevo la minima idea di quanto le parole potessero condizionare le nostre vite.
Le parole, nel cuore, lasciano sempre un segno. A volte ci aiutano a vivere meglio e a volte ci portano a non vivere. Io ho vissuto entrambe le cose.
Tutto è cominciato in maniera estremamente banale durante l’inverno della prima media, nel corso di una giornata di scuola apparentemente identica alle altre. Fino a quel momento non esisteva una ragione al mondo che potesse generarmi angoscia o disagio. La mia vita, come quella di qualsiasi adolescente, trascorreva tra alti e bassi e potevo far conto su una famiglia numerosa e soprattutto normale. Una mamma che fa la parrucchiera, un papà geometra, una sorella maggiore e un fratellino, Francesco, di dieci anni più piccolo di me. Lui è il vero re della casa, perché lo viziamo tutti e alla fine va bene così. Come in tutte le famiglie del mondo, le discussioni non sono mai mancate, ma penso che certe dinamiche siano lo specchio fedele di un’ampia realtà.
Torniamo ai fatti. Mamma il pomeriggio con una tinta leggera mi aveva colorato di rosso le punte dei capelli. Una sfumatura, nulla di più. Era da parecchio che le chiedevo di farlo e finalmente mi aveva accontentato. Quando la mattina entrai in classe, quel dettaglio passò del tutto inosservato ed io ci rimasi piuttosto male, perché è sempre piacevole sentirsi fare un apprezzamento. In realtà accadde ben di peggio, perché qualcuno, a mia insaputa, iniziò a bisbigliare qualcosa di molto cattivo nei miei confronti: «Alessia con quei capelli rossi sembra una troia». Non saprò mai come possano prendere corpo certi pensieri, resta il fatto che quella considerazione velenosa e demenziale, come un gas tossico iniziò a propagarsi per la classe per poi allargarsi a tutta la scuola e non solo. Erano state alcune ragazze a esprimere quel giudizio. Certe dicerie si muovono silenziose e strisciano come serpenti. Attraversano porte, scendono scale, escono nei cortili, si arrampicano sui marciapiedi e invadono le strade, senza che nessuno si degni di mettere fine a questo cammino.
Nei giorni successivi notai solo una certa freddezza da parte delle mie compagne e non diedi alcuna importanza a quel genere di atteggiamento. Avendo una mamma parrucchiera, pensai che forse qualcuna di loro potesse essere invidiosa della mia sfumatura, perché quei riflessi rossi erano sicuramente molto belli.
Trascorsero alcuni mesi e l’anno scolastico stava volgendo al termine, ma quel senso di distacco nei miei confronti non accennava a diminuire, anzi, cominciai a notare che il tentativo di isolarmi aumentava di continuo e una lunga serie di dettagli andavano a confermare la mia percezione. Un abbraccio mancato, uno sguardo evitato, un sorriso non corrisposto, una risatina maliziosa fatta alle mie spalle. Iniziai, giorno dopo giorno, ad accumulare una serie di piccoli episodi che conducevano inequivocabilmente ad una sola conclusione. Il gruppo aveva deciso di escludermi.
Iniziai a muovermi in mezzo alla nebbia e senza quasi rendermene conto, feci il mio ingresso nel labirinto.
Cominciai a passare interi pomeriggi a domandarmi quale fosse la causa di questa emarginazione, ma puntualmente ogni teoria conduceva al nulla. In certi momenti iniziai persino a dubitare di me stessa, pensando che fosse tutto frutto della mia immaginazione, ma anche questa ipotesi non servì certamente a farmi sentire meglio. E comunque ero certa di non essere improvvisamente impazzita. Qualcosa di brutto stava certamente accadendo. Iniziai a muovermi in mezzo alla nebbia e senza quasi rendermene conto, feci il mio ingresso nel labirinto. Fortunatamente avevo la danza che era in grado di distogliermi, almeno parzialmente, da quei pensieri. La danza moderna è sempre stata la mia passione e quando mi muovo seguendo le note, entro in una dimensione tutta mia. Anche oggi il mio sogno è di trasformare in un lavoro il mio amore per il ballo, ma erano brevi parentesi di serenità circondate da un mare angoscia e di solitudine crescente.
A tratti, nel labirinto, comparvero delle ombre che mi portarono a dubitare di me stessa e del mio modo di essere. Spesso mi trovai a sguazzare in mezzo a pensieri del tipo: «forse ho delle colpe che non conosco. Forse mi sono andata a cercare tutto quello che mi sta accadendo e non sono all’altezza degli altri». Cominciai così a dover sopportare anche il peso di colpe a me sconosciute, perché quella sbagliata probabilmente ero io. Mi sentivo fragile e soprattutto vittima di un qualcosa che non riuscivo a comprendere, spesso la rabbia prendeva il sopravvento sul dolore e allora cominciai a piangere per intere giornate. Lo facevo di nascosto, con il volto immerso nel cuscino e trattenendo i singhiozzi. Era un pianto sconsolato e infinito, perché non avevo una strategia difensiva da adottare. Subivo quell’emarginazione in silenzio, sperando solo che tutto finisse il prima possibile.
Io camminavo in mezzo a quella raffica di offese, come un soldato che improvvisamente si alza dalla trincea e si mette a correre verso il nemico.
Fu durante una gita scolastica che compresi meglio alcune cose. Mentre stavamo pranzando mi alzai per andare in gabinetto, ma una compagna cominciò a darmi della puttana, urlava, rideva, e anche altri cominciarono a insultarmi senza un motivo plausibile. Io camminavo in mezzo a quella raffica di offese, come un soldato che improvvisamente si alza dalla trincea e si mette a correre verso il nemico. Venni colpita da ognuna di quelle parole. Nessuna pietà. Il gruppo aveva scelto la vittima da immolare e tentare di fargli cambiare idea sarebbe stato impossibile. Sempre in quella occasione mi sentii urlare da un ragazzo: «Sappiamo benissimo cosa sai fare per due euro e cinquanta». Altri ripresero quella frase scendendo in dettagli più squallidi, ed è così che venni a sapere quali fossero le mie tariffe, in base alle varie prestazioni sessuali.
Quell’episodio mi colpì nel profondo e quando rientrammo a scuola, tutto divenne ancora più chiaro: Alessia era una grande troia, perché solo le puttane si colorano i capelli in quel modo. Come è possibile giudicare una persona in base a una sfumatura del colore dei capelli? Da che persone ero circondata? Naturalmente queste considerazioni non avevano alcun valore. Era impossibile ribellarsi e sottrarsi a quella feroce diceria, la sentenza definitiva era stata emessa.
A casa preferii non dire nulla. Scelsi la strada del silenzio per un semplice motivo; non avevo la minima intenzione di essere fonte di problemi. La vita di una famiglia è già complicata ed io non volevo appesantire la situazione. Pensai ingenuamente di potermela cavare da sola, anche perché si stava avvicinando la conclusione dell’anno scolastico e sicuramente, trascorsa l’estate, tutto sarebbe tornato alla normalità.
Luca mi chiama due o tre volte, perché io sono rimasta ipnotizzata ai piedi del palcoscenico e sto osservando alcuni musicisti che preparano un sound check. Finalmente gli rispondo, lui e Giorgio sorridono, assieme abbandoniamo il fronte palco e transitiamo attraverso la zona dei camerini che si trovano al centro dell’area ospitalità realizzata sul retro. Lo so che è solo mezzogiorno e gli artisti sono in hotel, eppure solo nel leggere i loro nomi sulle varie porte mi sento mancare le forze. Usciamo dal perimetro recintato e arriviamo sino alla strada che costeggia il Foro Italico. Incredibile, ma già oltre le transenne ci sono centinaia di ragazzi che bivaccano a terra in attesa di poter invadere il prato. Parlano, sorridono e scattano selfie. Mentre cammino tra di loro vengo seguita da una telecamera, perché questa mia esperienza farà parte di un docufilm sulla mia storia. I ragazzi guardano, cercano di capire chi cavolo sia e cosa canterò quella sera, io invece vorrei scomparire, perché mi vergogno come una ladra. Fortunatamente Luca mi incoraggia e io continuo la mia passeggiata, ostentando una sicurezza che non esiste. Il mio programma personale della giornata prevede il rientro in hotel, il pranzo, un riposino, cambio di abito e poi di nuovo al Foro Italico per il grande momento. Ansia che continua a salire!
Terminata l’estate rientrai a scuola carica di buoni propositi. C’erano state di mezzo le vacanze e tante serate spensierate con altri amici che non frequentavano la mia scuola. Tornai a sedermi tra i banchi con una buona dose di ottimismo, anche se la paura era ancora molta.
Ci vollero pochi giorni per capire che le cose erano addirittura cambiate in peggio, e ciò che nel profondo temevo si trasformò in realtà. Sin dalla prima settimana iniziai a imbattermi in un comportamento terribile da parte di quasi tutti i ragazzi. Al mio passaggio, come fossi una strega iettatrice, loro si toccavano le parti intime, mentre le ragazze cambiavano improvvisamente direzione. Sembrava che il solo fatto di incrociarmi in strada, o lungo un corridoio della scuola, lasciasse presagire la fine del mondo o chissà quale altra sciagura.
Trascorrevo le ore sul web e nei momenti più bui andai anche a leggermi terribili tutorial che spiegavano le tecniche dell’autolesionismo.
Scoprii con orrore che «Alessia la troia» adesso si era trasformata anche in «Alessia Piga porta sfiga». Nulla di più semplice che giocare sul mio cognome e tirare fuori una rima dal suono innocuo. Una piccola cantilena più tagliente di un bisturi che i ragazzi presero a canticchiare in maniera innocente. La notte cominciai ad avere gli incubi, sognavo di essere inseguita nel buio da qualcuno, che puntualmente scompariva nell’attimo in cui mi voltavo. Iniziai a urlare nel sonno e a svegliarmi madida di sudore e con il cuore in gola. Qualche notte mi ritrovai a dormire tra i miei genitori, perché il mondo iniziava veramente a terrorizzarmi. Mamma e papà cominciarono seriamente a preoccuparsi, ma io con ostinazione continuavo ancora a mantenere segrete le cause del mio dolore. Da tempo avevo iniziato a trascorrere i pomeriggi barricata nella mia stanza. Non ero stata in grado di elaborare nessun’altra forma di difesa. Trascorrevo le ore sul web e nei momenti più bui andai anche a leggermi terribili tutorial che spiegavano le tecniche dell’autolesionismo. Per fortuna ha sempre prevalso l’amore verso me stessa, ma in certi attimi è quasi impossibile riuscire a mantenere un equilibrio decente. Finalmente, un pomeriggio, trovai la forza per condividere quel peso enorme con tutta la famiglia, merito di Giorgia, mia sorella, che appoggiando le spalle alla porta della nostra stanza, mi disse: «Tu non esci di qua fino a quando non mi dici cosa sta accadendo nella tua vita». La mia resistenza durò solo pochi secondi, poi scoppiai a piangere e a raccontare.
Tra un singhiozzo e l’altro la misi al corrente di ogni dettaglio, e dopo tanto silenzio, le parole iniziarono a uscire da sole, una cascata inarrestabile, un fiume in piena che nessuno era adesso più in grado di fermare. Ricordo il dolore dipinto sul volto di Giorgia che corse subito dalla mamma, raccontandole la tragedia che stavo vivendo da oramai troppo tempo. Con Giorgia allora non avevo un rapporto strettissimo, ma da quel pomeriggio le nostre anime si sono sovrapposte e una certezza ora l’abbiamo: nessuno potrà mai separarci e il problema di una sarà sempre il problema dell’altra.
È tempo di uscire dall’hotel, mamma ha terminato di truccarmi e io per questa occasione unica ho deciso di indossare un top nero e una gonna corta, chiara, con disegnati dei fiori rosa, gialli e celesti. La zona del concerto è presidiata da centinaia di uomini delle forze dell’ordine e in cielo volteggiano gli elicotteri, solo in quel momento comincio a mettere meglio a fuoco cosa significhi prendere parte a un mega concerto. Passiamo una serie infinita di controlli e quando arriviamo nel backstage ci attendono in tanti e io mi sento minuscola e impreparata. Mauro e Paoletta, i due speaker che saranno sul palco assieme a me e Luca mi rasserenano, intanto io ho la testa che viaggia e non riesco a capacitarmi che tutto ciò stia realmente accadendo.
Una ragazza dell’organizzazione mi segue come un’ombra. È dolce e continua rassicurami, intanto ci spostiamo sotto il palco dove è stata allestita una zona riservata, e scopro che il Foro Italico si è già trasformato in una distesa infinita di ragazzi. Sono migliaia e migliaia ed è impossibile vedere dove termina quel tappeto multicolore di persone.
Tanta gente messa assieme non l’avevo mai vista. Questo è l’unico pensiero che riesco a elaborare. Finalmente ha inizio il preshow, gli speaker sono bravissimi e il pubblico risponde con dei boati da pelle d’oca. Il clima elettrico dell’evento comincia a salire e a travolgere tutto il Foro Italico. Si avvicina l’inizio del concerto ed è tempo di cominciare a preoccuparsi seriamente, perché tra meno di venti minuti dovrò entrare sul palco e non ho la minima idea di come potrei reagire. Non riesco a capire se sono terrorizzata o felice, resta il fatto che indietro non si torna.
A scuola il momento più drammatico era scandito dal suono della campanella, che preannunciava la ricreazione. Purtroppo durante l’intervallo non c’era più un banco a proteggermi ed ero costretta a uscire allo scoperto. La maggior parte delle volte non osavo varcare la porta della classe e magari, dissimulando una finta serenità, scambiavo due parole con qualche professore. Da quando avevo confessato tutto a Giorgia, la famiglia era al mio fianco, ma combattere un nemico del genere è molto difficile. Nel frattempo io avevo quasi smesso di mangiare, perché la sofferenza si era piazzata sopra lo stomaco e non lasciava passare nulla.
È semplice ferire, offendere, provocare. Non richiede alcuno sforzo mentale, si agisce per forza d’inerzia, per noia o semplicemente perché lo fanno gli altri.
Al termine di certe notti trascorse a piangere, mamma mi vedeva sfinita e allora preferiva lasciarmi riposare, ed era devastante leggere la disperazione nel suo sguardo. Una sera, dopo cena, le chiesi con ingenuità: «Mamma, ti prego falle finire tutte quelle voci. Non potrebbero limitarsi a picchiarmi? Almeno quelle ferite guariscono in fretta, ma ciò che mi stanno facendo è terribile. Aiutami a farmi passare questo dolore che ho dentro». In quei momenti mamma mi teneva stretta tra le braccia tentando di tranquillizzarmi e di proteggermi, ma ancora eravamo tutti nel mezzo del labirinto e l’accanimento contro me non accennava a diminuire. A volte, con grande fatica, riuscivo ad arrivare a pochi metri dal portone della scuola, ma poi, piuttosto che trovarmi al centro di quelle torture, accompagnata da qualche amica, ripiegavo verso il colle di Sant’Onofrio. Almeno lì mi sentivo al sicuro, protetta dai pini e dalla natura riuscivo a tenere a debita distanza quel mondo che aveva deciso di considerarmi una strega. Tutto a causa del colore dei miei capelli, lo so che può sembrare incredibile, ma il male spesso può annidarsi nelle banalità. È semplice ferire, offendere, provocare. Non richiede alcuno sforzo mentale, si agisce per forza d’inerzia, per noia o semplicemente perché lo fanno gli altri. Ricordo altre mattine in cui decidevo di rifugiarmi sui gradini che si trovano sul retro dell’edificio scolastico, oppure vagavo per la città seguendo le strade meno battute. Brutta bestia la solitudine, perché di fatto mi sentivo completamente abbandonata dai miei coetanei.
Le parole cattive, attraverso lo smartphone, cominciarono anche a penetrare nella mia stanza sotto forma di telefonate anonime, mi urlavano: «Troia, porti sfiga!» e poi riattaccavano. La stessa cosa accadeva anche attraverso messaggi volgari e umilianti. Una delle poche compagne che ancora trovava il coraggio di frequentarmi, un giorno mi mostrò una chat che la sua classe mi aveva dedicato. Mi girò anche una lunga serie di screenshot offensivi. Dolore che si aggiungeva a dolore. Forse la mia vita sarebbe stata così per sempre.
Solo allora compresi che avrei dovuto condividere sin da subito quel dolore con tutta la famiglia, perché nessuno, da solo, è in grado di uscire dal labirinto.
Un giorno, mentre ero in auto con mamma, passammo accanto a un gruppo di ragazzi. Come spesso accadeva, notai che alcuni di loro si toccarono le parti intime. Feci finta di nulla. Anche altre volte, mentre ero in giro con la famiglia, mi ero accorta di atteggiamenti del genere, ma avevo sempre preferito fingere di non vedere. In genere, con dei banali pretesti, cercavo di concentrare su di me le attenzioni della famiglia, in modo di poterli preservare da quel dolore. Quel giorno, con mamma, le cose andarono diversamente. Fu lei a chiedermi senza mezzi termini: «Alessia, si sono toccati le parti intime quei ragazzi?». Io, che non sono mai stata brava a dire bugie, le risposi la verità e la mamma rimase in silenzio. Sapevo che finalmente avrebbe agito e che qualcosa sarebbe cambiato. Questo, istintivamente, dopo mesi mi fece sentire protetta e ottimista. La mattina successiva mamma andò a parlare con la Preside e nel giro di qualche giorno decidemmo che sarei passata in un’altra scuola media. Era arrivato il momento di prendere la situazione in mano e di agire in maniera concreta. Solo allora compresi che avrei dovuto condividere sin da subito quel dolore con tutta la famiglia, perché nessuno, da solo, è in grado di uscire dal labirinto. Questo è l’insegnamento più grande che mi ha lasciato quella drammatica esperienza.
Mamma e papà in quel periodo denunciarono il fatto anche alle forze dell’ordine, perché io mi trovavo ancora al centro di tutte quelle maldicenze e giustamente dovevo essere difesa e tutelata in ogni maniera, in primis dalla legge. Naturalmente vennero fatte delle indagini e il ventotto novembre 2017, il Tribunale per i minorenni di Sassari emise una sentenza importante. Il Giudice, infatti, confermò pienamente l’autenticità del dramma che avevo vissuto, ed era questa la cosa che più mi stava a cuore. Era tutto vero, non mi ero inventata nulla e ora lo affermava anche un Tribunale.
Non sono un’esperta di sentenze, ho solo quindici anni, ma tra le tante parole scritte nel mezzo di quei fogli, due parole mi colpirono profondamente: «atti persecutori». Quelle due parole sintetizzano e raccontano tutto, perché io sono stata perseguitata ed è bene che tutti capiscano quanto sia semplice e banale perseguitare una persona.
Dopo aver cambiato scuola, le cose iniziarono subito a migliorare e anche il clima in famiglia tornò ad essere quello di prima. Incontrai nuovi compagni tornando nuovamente a sorridere. Terminate le scuole medie, e siamo alla storia dell’ultimo anno, ho scelto di frequentare il Liceo Psicopedagogico e questo mi ha consentito di allontanarmi ancora di più da quel maledetto labirinto. Sono successe molte cose in quest’ultimo anno. Il professor Gianfranco Oppo, ma io preferisco chiamarlo solamente Gianfranco, perché è una specie di secondo papà, ci è stato sempre vicino anche nei momenti più duri. Lui è veramente una grande persona e siccome dei suoi consigli ci siamo sempre fidati ciecamente, quando ci ha detto che un giornalista di nome Luca avrebbe potuto aiutarci a raccontare nella giusta maniera questa storia, abbiamo detto subito di sì. Con Luca è nato un bel rapporto di amicizia e adesso eccomi qui a Palermo con il cuore in gola.
Sono nel retropalco che è pieno di persone con cuffie e radio portatili. Sui grandi monitor interni, vedo in diretta le riprese video e ora ho ben chiaro quanto sia vasto il Foro Italico. Mi appoggio su una sedia perché ho le gambe che tremano, intanto qualcuno mi passa una bottiglietta d’acqua. Vorrei bere ma non riesco neppure ad aprire la bocca.
Luca entra finalmente sul palco e assieme a Mauro e Paoletta comincia a parlare di cyberbullismo, bullismo e della campagna #cuoriconnessi. Racconta che è tutto basato sulle testimonianze dirette e alla fine mi introduce: «Sapete cosa vuol dire venire massacrati per quasi due anni? Oggi voglio presentarvi una ragazza speciale che ha vissuto tutto questo, si chiama Alessia». Una mano dolcemente mi spinge oltre il backstage e mentre cammino verso il centro del palco riesco solo a sentire un applauso che non finisce mai, riesco a non piangere, sono troppo emozionata anche per versare delle lacrime. Finalmente trovo la forza di alzare lo sguardo verso il pubblico e con stupore scopro che quella moltitudine umana arriva sino all’orizzonte. Trovo anche la forza di parlare e mentre ringrazio la mia famiglia e chi mi è stato vicino in quel periodo terribile, la gente continua ad applaudire. Improvvisamente è come se mi venisse restituito con gli interessi ciò che mi è stato tolto, intanto la paura ha lasciato il posto a una gioia che non pensavo potesse neppure esistere.
Abbandono il palco mentre la gente ancora applaude e mi ritrovo nuovamente nel backstage a piangere come una fontana. Questa volta non sono lacrime di dolore ma di gioia, perché la vita ha iniziato a restituirmi ciò che gente cattiva mi aveva tolto senza pietà. Piango per la mia famiglia e per tutti quelli che mi vorranno sempre bene. Oggi posso finalmente dire che da quella tempesta siamo usciti tutti più forti e uniti, perché alla fine anche il dolore, se sai affrontarlo, qualcosa ti insegna. Piango per me stessa e perché la vita ha sempre qualcosa di buono da regalarti, specialmente quando meno te lo aspetti.
Dal labirinto si può uscire, mai arrendersi e mai pensare di potercela fare da soli.
Ora comincia la mia terza vita. Parallelamente allo studio, voglio impegnarmi ad aiutare chi è vittima di bullismo e cyberbullismo e voglio farlo nella maniera più semplice, e cioè attraverso la mia storia e la mia testimonianza. Dal labirinto si può uscire, mai arrendersi e mai pensare di potercela fare da soli. Oltre il labirinto c’è la vita vera, e anche chi ci ha spinto lì in mezzo può cambiare, e comprendere quanto sia più difficile e bello spendere una parola d’amore anziché una parola di odio. Quanto sia più figo sorridere a chi è in difficoltà, invece che isolarlo ancora di più.
Le persone forti trovano il coraggio di alzare lo sguardo verso gli altri e tutti, volendo, siamo in grado di farlo.