La storia di

Tommy

Parole che ho scritto senza pensarci. Parole a cui non davo un senso. Questa inconsapevolezza è stata la causa di tutto. Quando poi scopri che quelle parole hanno provocato ferite profonde in un altro essere umano, tutto diventa improvvisamente chiaro. A quel punto puoi solo sperare che la tua vittima sopravviva e che la tua vita non finisca nel nulla assieme alla sua.

Ascolta questa storia raccontata da Luca Pagliari

“Quella sera a casa avrei raccontato tutto anticipando l’arrivo della burrasca.”

Cos’è il rimorso? E come faccio a spiegarvelo? Certe cose le senti dentro e non riesci a tirarle fuori neanche se ce la metti tutta. Mica faccio lo scrittore! Sono solo un sedicenne che da un minuto all’altro si è trovato dentro una specie di tunnel. Bum, improvvisamente il buio. Tu pensi di non avere mai fatto nulla di male e inaspettatamente scopri che in realtà non stavi semplicemente pensando. Un casino, per dirla tutta fino in fondo. Esatto, io non stavo pensando. Lo so che sembra assurdo quello che vi sto dicendo, ma questa è la verità. Forse, qualche parola in più sul rimorso, però, riesco a recuperarla: beh, ecco, il rimorso è una bestia che non ti fa dormire, che ti toglie la voglia di fare qualsiasi cosa, che ti morde dentro e che soprattutto assomiglia a uno specchio. Ti guardi, vedi il tuo riflesso e ti domandi se realmente quella figura che ti sta di fronte può aver fatto certe cose. Eppure, sei sempre tu. 

IL rimorso è una catena di domande a cui non riesci a dare neanche uno straccio di risposta. Ogni volta, mi ritrovo sempre al punto di partenza. Avete presente quei sogni del cavolo dove cerchi di correre e, invece, rimani sempre lì? Ecco, a me capita la stessa cosa. Posso immaginare mille finali diversi, ma tutti i pensieri che mi spaccano le tempie finiscono sempre contro lo stesso muro, quello della realtà. La realtà non la cambi, perché quel che hai fatto lo hai scritto con l’inchiostro indelebile, non va più via. Da giorni vivo segregato nella mia stanza, a scuola non ho il coraggio di tornare; frequento il secondo anno di liceo scientifico, e anche se dico «frequento», in questo momento di vuoto totale dove tutto sembra sospeso mi verrebbe da scrivere «frequentavo». Non ho la forza di affrontare gli sguardi del mondo e, tanto meno, quella di varcare il portone del Liceo, quello che, a parte il periodo di lockdown, attraversavo tutti i giorni senza starci troppo a pensare. Dimenticavo una cosa: la parola «rimorso» nella mia situazione si mescola anche alla vergogna e questo, naturalmente, complica ulteriormente le cose. Ho provato a pregare in questi giorni, ho cercato di farlo con tutto il cuore, anche se onestamente non ho idea di chi sia disposto ad ascoltare le mie suppliche. Quando prego, mi vengono in mente la faccia e la voce di nonna che se ne è andata l’anno scorso. Ero il suo unico nipote e mi voleva un botto di bene; forse adesso la sua anima è da qualche parte che non vedo ed è in grado aiutarmi a superare questo momento. Forse. La parola «forse» è quella che affolla di più i miei pensieri. Ancora non ve l’ho detto, non penso sia così importante, comunque io mi chiamo Tommaso, ma senza troppa fantasia tutti mi chiamano «Tommy». Sapete qual è l’obiettivo delle mie preghiere? Sperare che Kris non muoia. Nulla di più e nulla di meno. Sperare che Kris tenga duro e riesca a superare queste giornate, perché dicono tutti che siano le più delicate. Non avrei mai pensato che la mia vita potesse cambiare così all’improvviso e, soprattutto, non avevo idea di quante persone potessero venire travolte da quello che io ho combinato. Esatto. Perché io sono il solo responsabile di tutto questo. Da qualche parte avevo letto di una cosa che si chiama «effetto domino» e cioè che un’azione ne scatena molte altre; nella mia storia è accaduto proprio tutto questo. Ora torno indietro di qualche giorno, non chiedetemi quanti perché ho perso il senso del tempo, comunque erano circa le 19:30 e stavo smanettando con lo smartphone sul divano di casa. Accanto a me c’era Poldo, il nostro gatto bianco e marrone, mentre papà era appena rientrato dallo studio. Tanto per informarvi, papà fa il grafico, invece, mamma è caposala in ospedale nel reparto di terapia intensiva. Ho sentito squillare il telefono di mamma, ma non gli ho dato peso, perché con il suo lavoro la chiamano anche negli orari più impensati, però dopo qualche secondo ho iniziato a intuire che era accaduto qualcosa di grave. Non l’ho capito dalle sue parole, ma dai suoi silenzi e dalla sua espressione. Aveva la stessa faccia di quando la chiamarono per dirle che suo fratello era morto in un incidente. Insomma, ho avuto un tuffo al cuore. C’era qualcosa dentro di me che si era mosso in maniera improvvisa, forse potrei definirlo intuito. Ho appoggiato lo smartphone sul tavolinetto che sta di fronte al divano e ho iniziato ad aspettare che mamma finisse quella telefonata che sembrava infinita. Di secondo in secondo, vedevo la sua ansia crescere e di pari passo anche la mia iniziava a superare i livelli di guardia. Era iniziata l’attesa di un qualcosa di brutto che ancora, però, non ero capace di inquadrare. Dopo circa dieci minuti di silenzi e di mezze frasi che mamma rivolgeva a un misterioso interlocutore telefonico, finalmente ha chiuso la comunicazione e, prima di parlare, si è seduta come un sacco vuoto al tavolo da pranzo, quasi dovesse recuperare le forze per comunicarci qualcosa. Io non ho avuto neppure il coraggio di dire: «Allora?» Pochi secondi e le sue parole hanno riempito l’intera stanza: «Tommy, Kris, il tuo compagno di classe, ha tentato il suicidio. Ero al telefono con la mia collega. Adesso è in terapia intensiva ed è in condizioni gravissime. Mi diceva che sarà molto difficile che possa salvarsi.» Improvvisamente, tutto mi era sembrato surreale, per non dire impossibile. Non era vero quello che stava accadendo, non era accettabile, forse stavo sognando o, cosa ancora più probabile, la collega di mamma si era sbagliata. Sì, sicuramente si era sbagliata o aveva ingigantito le cose, magari Kris si era sentito male, magari i dottori si erano confusi o forse si trattava di un altro Kris. A cena, quella sera, mamma e papà parlarono solo di questa tragedia rivolgendomi una serie infinita di domande. Avevano letto sul mio volto l’angoscia e cercarono a modo loro di consolarmi. A monosillabi, risposi che non avevo idea del perché Kris avesse potuto compiere un gesto del genere. Aggiunsi che a scuola sembrava normale, forse era un po’ eccentrico, ma nulla di più. Pronunciai parole confuse, mentre dentro me era già scoppiata una tempesta devastante. Non toccai praticamente cibo e poi mi rinchiusi in camera. Ero assolutamente sconvolto. La chat che condividevo con altri quattro amici era già bollente. Evidentemente, le brutte notizie corrono più veloci del vento. Il primo messaggio era di Michele: «Raga, Kris ha provato ad ammazzarsi! Porca troia mi sa che ci tirano in mezzo!» Al messaggio aveva risposto subito Marino: «Noooo! Ha tentato il suicidio?? Cacchio dici? Ma noi che c’entriamo???» Ancora Michele: «Se viene fuori tutto quello che gli abbiamo scritto, siamo nella merda!» Tony, che era il quinto del gruppo, e aveva compiuto da poco diciotto anni, aggiunse: «Cazzo, lo abbiamo anche ricattato e fuori dalla palestra gli ho dato pure un pugno e qualche calcio. Porca puttanaaaaaa!!!! Che casino! Che casinoooo!» Seguiva, poi, una lunga serie di messaggi, ognuno conteneva una sua teoria, alcuni invece miravano a minimizzare le nostre responsabilità. Dico nostre, perché da mesi anche io facevo parte di quel gruppetto che aveva preso di mira Kris. La cosa che, però, mi colpì maggiormente fu che nessuno, dico nessuno, ebbe in quel momento una parola di pietà per quell’essere umano. Tutti stavano pensando a come salvarsi il didietro oppure cercavano di autoconvincenrsi che non avevano responsabilità. Io, invece, avevo solo un’immagine di fronte, forse perché conoscevo bene il reparto dove lavorava mamma: Kris steso su un letto circondato da macchinari, in bilico tra la vita e la morte. Quando hai sedici anni, non esiste di pensare che un tuo coetaneo possa essere sfiorato dalla morte, ma improvvisamente nella mia mente quella immagine aveva preso forma. Era una scena nitida: Kris, il letto e il bip delle macchine che lo stavano tenendo in vita. Ero scivolato in un baratro, una caduta libera senza fine. Non riuscii a scrivere nulla in chat, era come se assistessi a uno scambio di messaggi tra persone sconosciute e non con i miei soliti amici del gruppo. Nessuno, proprio nessuno, spese una parola di pietà per Kris. Nessuno scrisse: «Ma che cavolo abbiamo combinato?» La ciliegina sulla torta la mise Michele, postando queste parole: «State a vedere che per colpa di questo coglione con lo smalto alle unghie ci ritroveremo in mezzo a un casino!» Per qualche secondo, pensai di rispondergli che un nostro compagno di classe era a un passo dalla morte, come poteva dargli del coglione? Come poteva negare che noi, proprio noi, eravamo probabilmente i principali responsabili dell’accaduto? Non trovai la forza di scrivere neanche mezza riga; appoggiai il telefono sul comodino e spensi la luce sperando di dormire. Non chiusi occhio. L’immagine di Kris era sempre lì davanti ed ero anche perfettamente conscio che presto, molto presto, avrei dovuto affrontare l’inferno. È incredibile come improvvisamente riuscii in maniera nitida a scorgere la nostra crudeltà nei confronti di Kris. Fu come uscire dalla nebbia e, adesso, la situazione era precipitata. Cercai di respirare più lentamente, ma quel senso di panico, misto a una sensazione di soffocamento, continuava ad aumentare di minuto in minuto. Kris aveva tentato di ammazzarsi, di scomparire dalla faccia della terra, di cancellarsi. Immaginai il suo banco vuoto, dei fiori sulla sedia e noi, gli assassini, schiacciati dagli sguardi e dal silenzio di tutti. Iniziai a piangere, ma non si trattava di lacrime liberatorie, ero disperato. Mai in vita mia avevo provato qualcosa del genere. «Le parole uccidono!». Quella frase l’avevo sentita pronunciare un miliardo di volte da chi si occupa di cyberbullismo, dai docenti e in televisione. L’avevo letta sui social mille volte, senza mai prenderla sul serio. Era una specie di scioglilingua vuoto e insignificante: «Le parole uccidono!» Coglione che non sono altro, me lo avevano detto e scritto in tutte le salse, ma non avevo mai dato il minimo peso a quella frasetta che sembrava di plastica, buttata lì, tanto per metterci paura e farci stare meno sui social. Cazzo! Le parole uccidono veramente, ora quella frase si era trasformata in altro, aveva assunto toni drammatici, era diventata reale come un macigno, ingombrante e soffocante. No, questo non doveva accadere. Non a me. E dire che più cose schifose scrivevamo a Kris, più ci sentivamo appagati e soddisfatti. Questo, adesso, era il risultato. Un cuore che pompava sangue e batteva solo grazie all’aiuto di una macchina. La mattina successiva, con un filo di voce, chiesi a mamma se avesse avuto notizie. Senza aggiungere nulla, prese lo smartphone e chiamò direttamente la terapia intensiva. Dal reparto, le dissero che le condizioni erano stazionarie, ma disperate. Controvoglia, mangiai una fetta di pane con la marmellata e poi, con la morte nel cuore, salii sullo scooter e andai a scuola. Naturalmente, non si parlava di altro. C’erano anche dei giornalisti con le telecamere fuori dall’istituto che cercavano di rubare qualche nostro pensiero, la bomba era esplosa in tutta la sua potenza. In classe e nei corridoi, esisteva solo l’argomento Kris, ma ancora la parola «cyberbullismo» non era mai stata pronunciata. Sapevo che era solo questione di ore o al massimo di giorni. Durante l’intervallo, mi ritrovai con Michele, Marino e Samu; secondo Michele, noi non c’entravamo nulla: «Raga, Kris era strano e magari aveva problemi suoi. Poi noi scrivevamo e basta, mica lo abbiamo mai picchiato o cose del genere.» A differenza della sera precedente, in chat, questa volta riuscii a parlare in maniera diretta e, forse, molto cruda: «Raga, inutile che ce la raccontiamo. Sapete quante volte gli abbiamo scritto “frocio di merda”? Avete idea di quante volte gli abbiamo detto che se si fosse ucciso avrebbe fatto un regalo all’umanità? Le parole possono ammazzare le persone, porca puttana! Beh, non facciamo gli ipocriti. Certo che ci troviamo in mezzo alla merda, prepariamoci a un casino di quelli grossi, perché la prima cosa che farà la Polizia Postale sarà avviare delle indagini.» Rimanemmo tutti in silenzio, quasi che la realtà che avevo buttato lì in mezzo ci avesse schiacciato come un blocco di marmo. Cosa sarebbe successo quando sarebbero venute fuori quelle cose? Dove avrei trovato la forza per continuare a vivere e a guardare in faccia il resto dell’umanità? Che dolore avrebbero provato mamma e papà? Tutte domande che si accumulavano come nubi nere all’orizzonte e che ancora non avevano una risposta. C’era solo da attendere. Fu uscendo da scuola che mi venne in mente quello che avrei dovuto fare: quella sera a casa, avrei raccontato tutto, avrei mostrato le chat, avrei tentato di anticipare l’arrivo della burrasca preparando papà e mamma. Non provai il minimo sollievo per questa decisione, ma almeno avrei tentato di fare qualcosa. 

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