La storia di

Marco

Ho vissuto a lungo dentro un corpo che detestavo e di cui mi vergognavo. Non avevo capito che io mi devo andar bene così. Non è semplice comprenderlo, ma ora riesco a convivere meglio con il mio aspetto. Essere sovrappeso non è una colpa e neppure un’etichetta.

Ascolta questa storia raccontata da Luca Pagliari

“Mi sento inutile. Mi sento un peso in tutti i sensi.”

Ci provo, mi sforzo, sudo, le mani si aggrappano alla pertica e provo a incrociare le caviglie attorno a quel palo di acciaio lucido. Non mi arrendo, cerco di spingermi verso l’alto, provo a salire ma non mi sposto di un centimetro e resto appeso a quella maledetta pertica come un salame. 
Cavolo, mi sento che sulla fronte si formano quelle maledette goccioline di sudore che odio profondamente. In genere più le asciugo con il dorso della mano e più loro si riformano. 

Anche se non li vedo mi sento puntati addosso gli sguardi del resto della classe e soprattutto penso con angoscia a Tiziano, Lele, Rik e Mauri: sono mesi che mi hanno preso di mira. Diciamo che perseguitarmi è il loro hobby preferito. Il prof mi dice di non mollare e intanto mi spiega cosa devo fare: «Marco, stringi con le caviglie il palo, stringi forte! Adesso prova con le mani a guadagnare qualche centimetro di pertica e poi tira su le gambe. Dai!» No. Non riesco. Le mani sono umide e non fanno presa, la testa mi dice stop e come spesso accade mi consegno al fallimento. Ha vinto la forza di gravità e con un saltello goffo mi ritrovo sul pavimento di gomma della palestra. Mi sento male dentro. Mi vergogno, mi sento inutile, mi sento un peso in tutti i sensi, sono un essere superfluo. Uno sfigato e solo io so veramente cosa significhi sentirsi uno sfigato. Mi chiamano «il ciccione» oppure «Oversize». Mica hanno torto, perché nella mia vita è tutto pesante: andare a scuola, fare ginnastica, rimanere sulla gradinata a vedere gli altri che giocano a pallone, pedalare, andare a comprare i jeans, camminare in mezzo agli altri. Quasi mai voglio uscire con mamma a comprare dei vestiti, perché mi vergogno dei commessi, delle loro domande su che taglia io indossi e mi vergogno della gente che magari ti osserva. Stanno zitti, ma è come se parlassero. Allora preferisco che mamma vada da sola, oppure compro online, è tutto meno imbarazzante, anzi, per dirla tutta, è meno doloroso, perché di questo si tratta. Il pensiero più ricorrente per un ciccione come me è sognare di essere invisibile, ma un ciccione non sarà mai invisibile, ve lo garantisco. Io attiro sempre gli sguardi di tutti e non sto neppure a dirvi che genere di sguardi. Tanto per informarvi, ho quattordici anni, peso 98 chili e sono alto (per modo di dire) un metro e sessantotto. Mi chiamo Marco, ma questo è secondario, io per tutti sono il ciccione della 1ª F. Forse qualcuno pensa che io sia anche sordo, perché spesso parlano di me immaginando che io non ascolti, invece sento tutto. «Chiedilo al ciccione se domani c’è il supplente» oppure «Oggi in italiano interrogano Silvia e Oversize.» Non tutti sono così, ma quando quel gruppetto mi prende di mira nessuno osa fiatare, preferiscono far finta di niente oppure sorridono, tanto per evitare che il gruppetto possa prendersela anche con loro. Suona la campanella, raduno alla meglio i libri dentro lo zaino, scendo le scale insieme a quel fiume di gente e poi recupero la bicicletta che è legata con una catena al palo della luce fuori dalla scuola. Da un po’ di tempo hanno smesso di sgonfiarmi le ruote, mica le bucavano, è più facile sgonfiarle, ci vuole un secondo e siccome nessuno si porta dietro la pompa, riuscivano lo stesso a mettermi nella merda (scusate il termine ma non ho trovato nulla di meglio da scrivere). Il loro godimento era osservare da lontano la mia reazione quando mi accorgevo che le gomme erano a terra. Con il passare del tempo sono diventato un esperto nel far finta di niente e senza cagarli di striscio, spingendo la bici a mano, tornavo a casa. Un giorno uscendo da scuola ho scoperto che mi avevano rubato la sella; mi sarei messo a piangere, quella volta li ho visti proprio sghignazzare, ma come sempre non ho reagito.Del resto i ciccioni sono inoffensivi e senza un briciolo di volontà. Forse anche per questi motivi ai 98 chili aggiungo anche il peso di un diffuso senso di colpa, quasi che io me la sia andata a cercare. Da quando hanno posizionato due telecamere nel piazzale di fronte alla scuola hanno smesso, mica sono scemi, però già immagino che stiano inventandosi altre maniere per farmi del male. Ho fatto finta di niente anche quando mi hanno scritto sul banco: «Qui siede il killer delle bilance» o quando mi hanno lasciato nello zaino un biglietto con scritto «I ciccioni puzzano di merda.» La cosa più perfida? Beh, hanno creato una chat e l’hanno chiamata in mio onore Morte al maiale. Vi fanno parte una quindicina di energumeni, ma poi quelli che agiscono sono sempre i soliti quattro. Se vi dovessi elencare l’elenco delle crudeltà che hanno scritto in chat non basterebbero due fogli protocollo. Anche a casa ho sempre preferito far finta di niente, non mi va di essere compatito e allora ho imparato a starmene zitto, perché l’idea di vedere mamma soffrire per colpa mia mi manda proprio a terra. A volte vorrei spaccare il mondo e fare qualcosa, ma poi certi pensieri volano via e non accade nulla. Quando lo scorso anno ho finito le medie (seconda e terza per gran parte in DAD), non vedevo l’ora di tornare in una classe vera. Per fortuna, sia alle medie che alle elementari, nessuno si era mai accanito contro di me, tra l’altro pesavo meno ed ero persino iscritto alla società di pallavolo, poi con questo cavolo di Covid il mondo si è fermato. Zero attività fisica, zero dieta e zero tutto nonostante mamma cercasse in tutti i modi di spronarmi e di far scattare una scintilla. Invece, buio totale. Resta il fatto che mi sono ritrovato in prima superiore con una miriade di aspettative perché stavo per rientrare in una classe non virtuale e soprattutto stavo per fare il mio debutto nel mondo dei grandi, mai avrei immaginato che sarebbe stato l’inizio di un incubo. I quattro che mi hanno preso di mira già li conoscevo di vista. Stesso quartiere. I primi giorni di scuola hanno fatto anche i simpatici, poi ho scoperto che era tutta una presa in giro e quando ti rendi conto di certe cose fai fatica a pensare che tutto il resto del mondo sia diverso da loro. Sì. Fai proprio una gran fatica. Smetti di fidarti, diventi come quei cani che hanno preso le botte e non si azzardano più ad avvicinarsi a un essere umano. Secondo me (sto parlando dei quattro), loro immaginano che uno grasso non provi dolore, quasi che tutta quella ciccia lo renda un essere diverso e incapace di vivere le stesse emozioni degli altri, intendo quelli magri, quelli che camminano e nessuno si volta a guardarli. Sembra strano, ma è così. Chi lo avrebbe mai detto? Alla fine per certi versi rimpiango la DAD, perché nessuno era in grado di attaccarmi. La mia camera era un castello inespugnabile, il ponte levatoio che mi collegava all’universo era il pc e potevo navigare in quel mare anonimo senza alcuna paura. Lì nessuno si poteva permettere di osservarmi il didietro sghignazzando. Arrivo a casa, mamma mi ha lasciato nel frigo il passato di verdura e il petto di pollo da fare alla griglia, oggi niente pasta (90 grammi tre volte a settimana), lo dice la dieta che lei ha appiccicato sull’anta della credenza. Mamma lavora in un’azienda che produce tomaie per le scarpe e, poveraccia, deve organizzare tutto all’alba. Mio padre? Faccio fatica a usare la parola padre, perché lui se ne è andato di casa quando avevo cinque anni, non ci passa un euro neanche se lo ammazzi e si fa sentire una volta all’anno. Fosse per me potrei anche cambiare cognome. Lui vive in un’altra città e ha altri due figli piccoli che io neppure conosco, o meglio, li conosco attraverso Facebook. Foto al mare, in montagna, post dei compleanni dove tutti sorridono e sembrano felici. Ho smesso di starci male, ho finito di domandarmi se gli è mai passato per la mente che quelle foto le vedo anche io e probabilmente anche la mamma. Io penso che lui si vergogni di me, a mamma non lo dico, ma ne sono convinto. Penso anche che quando una persona posti qualcosa sui social dovrebbe sempre ricordarsi che esistono altri esseri umani che potrebbero soffrire per quelle immagini o quelle parole. Beh, mio padre evidentemente di questo aspetto se ne frega. E dire che le campagne di prevenzione le fanno solo per gli studenti, ma anche tanti adulti secondo me dovrebbero imparare a usare il cervello prima di postare qualsiasi dannata cosa. Secondo me, io sono il figlio ciccione da nascondere perché troppo ingombrante in tutti i sensi, ma come ho scritto ho smesso di soffrici o almeno ci provo. Smettere di fare le cose è forse ciò che mi riesce meglio. Bella questa, non ci avevo mai riflettuto. Ho smesso persino di chiedermi che cosa abbia mai fatto di male. A scuola me la cavo abbastanza, parlo poco perché sono un timido e questo corpo ingombrante non mi aiuta certo a spargere sorrisi a destra e sinistra, però non sono uno che attacca briga, si capisce che sono sempre un po’ a disagio e forse è proprio per questo che hanno deciso di attaccarmi. Avete presente quei documentari sulla natura dove le iene circondano l’animale più fragile e indifeso, nel mio caso credo che accada esattamente la stessa cosa. Magari non ve ne frega niente, però ci tengo a dirvi che la mia obesità non nasce dal cibo spazzatura divorato sul divano come si vede nei film americani o in certi programmi del cavolo. È vero che specialmente durante il lockdown ho fatto un po’ schifo, ma il mio è soprattutto un problema ormonale o come dice il dottore, è uno squilibrio endocrino, però mica voglio ammorbarvi con un trattato medico scientifico. Certo che trascorrere mesi e mesi dentro un appartamento di novanta metri quadri al settimo piano non è stato il massimo. Mangiare era una delle poche cose consentite e comunque da gennaio mamma nel frigo e in dispensa ha abolito tutte le schifezze che mi facevano ingrassare e non averle sotto gli occhi mi aiuta, però io non faccio sport e passo quasi tutta la giornata seduto; prima a scuola e poi nella mia camera. Lo so benissimo che dovrei fare moto. Il dottore e mamma mi tormentano con il fatto che ogni giorno dovrei fare almeno un’ora di camminata veloce, però io non ho voglia di trascinarmi dietro questi maledetti 98 chili e non ho neppure voglia di sentirmi appiccicati addosso gli sguardi della gente. Di tornare alla pallavolo, poi, non se ne parla proprio. La verità è che meno ti muovi e meno hai voglia di farlo, per questo la pigrizia è una delle mie compagne più fedeli assieme alla Play e allo smartphone. Forse a voi non capita, ma vi garantisco che sentirsi prigionieri di un corpo che non vorresti è proprio deprimente. E non è tanto per le malattie, quanto per il timore degli altri. Non so neppure se sia paura. Resta il fatto che tu appartieni al mondo dei diversi e questo fa male sempre. È un dolore che non passa mai. Fatico a spiegarmi, ma è come sentirsi continuamente nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, forse perché la taglia del mondo è una M o una L, al massimo una XL, ma mai una XXL. Nei social, le persone giuste e fighe sono quelle magre e muscolose. Tutti usano i filtri, sia i maschi che le femmine e tutti vogliono essere perfetti. Io di perfetto non ho nulla e nel mio caso i filtri servirebbero a poco. I ciccioni online rappresentano un mondo a sé, personaggi quasi da circo, li trovate nei reel da ridere, nei meme e in tutte quelle cose che li mostrano come oggetti grandi, grossi e sudati. I ciccioni sono quelli che sfondano le sedie, che azzannano hamburger giganteschi, che cadono e poi non sanno rialzarsi, che in piscina provano a stendersi sul materassino e invece cappottano. I ciccioni sono persone deboli e anche un po’ sempliciotte. Tutte queste cose, cari amici, io le porto incise sulla pelle e sul cuore, ma la gente non ha il tempo di pensare cosa mi attraversi la mente. Molti arrivano a una sola conclusione: “Mangiasse di meno!” Metto i piatti nella lavastoviglie e mi concedo un quadretto di cioccolato fondente all’85%, me lo ha permesso il dottore, ma oggi non resisto e ne mangio due. In teoria dovrei iniziare a studiare, invece mi sdraio sul letto e inizio a scrollare lo smartphone senza una meta precisa, direi come sempre. Mi muovo nel mondo dei “perfetti” osservandolo da lontano, loro dentro e io fuori. Ripenso a quello che Mary mi ha fatto leggere l’altro giorno in una chat allargata anche a ragazzi di altre classi, Mary la conosco fin dalle elementari e non condivide per niente quello che mi fanno. Ha voluto che leggessi quelle parole perché a scriverle non è stato un appartenente al famoso gruppetto, ma un ragazzo della 1ª B, che oltretutto mi saluta sempre. «Così sai quanto sono stronzi anche certi che ti fanno il sorrisino davanti.» mi aveva detto Mary. Effettivamente è semplice scrivere alle spalle di qualcuno. Ogni vigliacco è capace di farlo, molto più difficile dire le cose in faccia. Sapete, ho la sensazione che se scriviamo online delle cattiverie, non ci sembra neppure che possano fare male, quasi che il nostro bersaglio non esista, quasi che sia un qualcosa di maledettamente virtuale, ma torno al messaggio che mi ha fatto leggere Mary: «Il ciccione è depresso, tanto se prova a tagliarsi non gli esce neppure una goccia di sangue!» E a seguire una valanga di commenti e di emoticon tutte dello stesso livello. Tra i tanti fantastici pensieri ho letto anche quello di Irina che è poi in classe con me: «Se è depresso troviamogli una balena, così li facciamo felici!» Altre faccine, altre risate virtuali a crepapelle e poi altri commenti. Siamo in primavera e tutto l’anno scolastico è andato avanti più o meno in questa maniera. Triste vero? Sento le chiavi che s’infilano nella serratura della porta di casa e Leone, il nostro gatto tigrato trovatello, inizia a miagolare; ha già capito che è arrivata mamma. Ha le borse della spesa, va diretta in cucina e mi chiede come è andata a scuola. La mia risposta è sempre la stessa: «Bene, mamma.» Si leva il giubbotto di jeans e mentre infila i panni sporchi nella lavatrice mi butta lì la solita frase: «Marco perché non esci e vai a farti un giro, fuori si sta benissimo!» Dal suo tono di voce capisco che la sua è una spensieratezza finta. La mia risposta è identica a quella del giorno prima: «Non ho voglia.» Il pomeriggio se ne va via così; un po’ ripasso matematica, un po’ guardo Tik Tok, un po’ ascolto Keta e poi mi guardo per l’ennesima volta una puntata della seconda serie de Il Trono di Spade. Gli amici li ho, o meglio li avevo, poi lentamente ho iniziato a isolarmi. Quelli della pallavolo li ho persi strada facendo, gli altri hanno sempre mille cose da fare, ma la verità è che io non mi sento più a mio agio quando sto in mezzo agli altri. Mentre ceniamo (frittata, ma senza pane, e contorno di bietole) mamma mi racconta che in fabbrica è arrivato un nuovo direttore del personale molto simpatico, nel frattempo mi arriva una notifica. Prima di guardare aspetto che mamma finisca il discorso e che sparecchi. Questa è la nostra regola. Quando si è a tavola niente smartphone e niente tv, ed è molto più semplice di quanto uno possa immaginare. I primi tempi sembrava mancasse qualcosa e quel silenzio mi innervosiva, adesso invece ci viene naturale parlare e discutere di tutto. Ad inviarmi il messaggio è Mary. C’è anche allegato un video: «Ciao Marco, quei cretini mentre oggi tentavi di fare la pertica hanno girato un video, stanno veramente superando il limite, guarda che roba schifosa!» Sento il cuore che batte più in fretta e vorrei gettare il telefonino nel water, vorrei non vedere, vorrei non esistere, ma quel file video è terribilmente reale. Dico a mamma che vado a mettermi le pantofole, invece appena entro in camera clicco sul filmato. In primo piano ci sono io che annaspo sulla pertica e ad ogni mio tentativo di salire hanno aggiunto il rumore di una scoreggia, poi hanno inquadrato nel dettaglio il mio sedere e giù ancora con una serie di effetti sonori mortificanti. Nel frattempo Mary mi ha inviato gli screenshot dei commenti, ripeto, lei non lo fa per cattiveria, ma per farmi ben capire con che gente io abbia a che fare. «Vedrai che a forza di scoregge arriva in cima!» Risate, commenti e emoticon di ogni genere. «L’importante è che non si caghi sotto!» E giù un’altra valanga di commenti e di reazioni. «Raga se postiamo sta roba su Tik Tok facciamo il botto!» E vai ancora con una serie di considerazioni terribili. Torno in cucina, saluto mamma e dico che vado a letto perché ho sonno, ma non è vero. Provo a sentire la musica, ma non serve, riesco solo a starmene sdraiato sul letto fissando il soffitto. Non mi dà sollievo neppure il sorriso di Pecco Bagnaia che mi osserva dal poster appeso alla parete. Niente mi dà sollievo e vorrei sprofondare, vorrei sfondare il materasso, poi la rete, il pavimento, quindi, la terra e scomparire per sempre, inghiottito da qualcosa che non conosco, ma che non mi spaventa. Non riesco a chiudere occhio per tutta la notte o quasi. Quando sto per addormentarmi puntualmente mi viene in mente che la mattina dovrò entrare in classe ed è come una coltellata. Ho un peso enorme sul petto, altro che 98 chili, pesa una tonnellata, è insostenibile. Sono le sette quando mamma mi viene a svegliare, oggi ha il turno pomeridiano, mentre alza la serranda mi dà uno sguardo e in un secondo capisce che c’è qualcosa che non va. Inizialmente pensa al Covid, io parlo a monosillabi, dico solo che ho dormito male ma poi improvvisamente cedo. È una diga che crolla, comincio a piangere e dopo la prima lacrima le altre se ne approfittano e cominciano a cadere senza più alcun controllo. Bagno il cuscino mentre avverto in bocca il sapore salato di quelle gocce di dolore. Mamma cerca di tranquillizzarmi e alla fine mi ritrovo seduto in cucina di fronte a una tazza di latte caldo. Da qualche parte trovo le parole giuste e poi, frase dopo frase, pensiero dopo pensiero, racconto a mamma tutto, ma proprio tutto e finisco persino con il mostrarle il video che mi ha inoltrato Mary la sera prima. Capisco che dietro il silenzio di mamma si nascondono nuvole di dolore e di rabbia, però io per la prima volta dopo tanto tempo mi sento meglio, più leggero, meno impaurito. Mamma si alza, prende lo smartphone e chiama l’azienda, in venti secondi spiega che ha un problema e che quel giorno non andrà al lavoro. È talmente stimata e ligia al dovere che non deve aggiungere nulla. Mi guarda e dice: «Adesso andiamo a scuola e parliamo con un po’ di persone, casomai andiamo anche a sporgere denuncia alla Polizia Postale.» Non l’ho mai vista così determinata e, cosa strana, non ho la minima paura di ciò che potrà accadere. Quando arriviamo a scuola sono già le 9:30 e tutti sono in classe a fare lezione. I corridoi sono vuoti e sembrano lunghi il doppio. Mamma si piazza fuori dalla presidenza e dice ad una segretaria, che non ho mai visto, che ha necessità di parlare con il dirigente. Mi sento protetto, oserei dire quasi sereno e la cosa mi sorprende molto. Passano circa dieci minuti e sempre la stessa segretaria ci riferisce che possiamo accomodarci. Io il dirigente l’avevo visto di sfuggita solo un paio di volte, anche perché l’istituto conta oltre mille studenti ed è grande come un paese. Lui è molto gentile e il suo ufficio tra quadri e bandiere sembra quello del Presidente della Repubblica. Il Preside è abbastanza giovane e indossa una polo azzurra e i jeans, insomma, l’abbigliamento è rassicurante. Ascolta con la massima attenzione il racconto di mamma e poi passa ad esaminare il video della pertica e gli screenshot. Mi chiede gentilmente se ho altro materiale e allora dalla galleria degli orrori online estraggo altri video, vari reel e un elenco di screenshot offensivi che è più lungo di un’autostrada. Osserva senza parlare e legge tutto con attenzione prendendosi tutto il tempo necessario. Alla fine mi guarda e se ne esce con questa frase: «Ti chiedo scusa se nessuno tra i professori si è accorto di ciò che ti stavano facendo, però se tu avessi parlato un po’ prima sicuramente questo calvario sarebbe durato meno, e comunque guardiamo avanti.» Da quelle parole sono passati circa sei mesi e molte cose sono cambiate. Moltissime direi. Assieme a mamma abbiamo deciso di non denunciare i quattro, in compenso il dirigente li ha prima convocati assieme alle famiglie e dopo cinque giorni di sospensione li ha obbligati a sviluppare un progetto contro il cyberbullismo e le discriminazioni di genere. E indovinate a chi ha affidato il coordinamento del lavoro? A me! Proprio a me! Inizialmente non è stato facile ed io pensavo che mai e poi mai sarei stato capace di condividere qualcosa con le persone che mi avevano recato così tanta sofferenza, ma la vita è strana. Se si abbattono i muri, se si trova il coraggio di andare oltre il pregiudizio e il rancore, succedono cose sorprendenti. In tre mi hanno chiesto subito scusa e io ho accettato il loro gesto. Invece la famiglia di Tiziano continuava a sostenere che io avessi ingigantito tutto e che certe cose dovrebbero sbrigarsele i ragazzi tra loro. Tiziano prima ha cambiato scuola, ma dicono che si sia ritirato quasi subito, onestamente devo ammettere che non vederlo più in classe per me è stata una liberazione. Pochi giorni fa, mentre stavo andando in palestra (è stato Rik a convincermi), mi è sembrato di intravederlo nel parco mentre ciondolava tra un vecchio scivolo arrugginito e lo scheletro di una giostra; beh, quello è un luogo di spaccio e quindi qualche idea me la sono fatta. Quando a settembre sono riprese le lezioni, Rik mi ha confessato che sapeva benissimo di procurarmi dolore, ma aveva paura di deludere le aspettative del gruppo e quindi non si era mai opposto a tutte quelle azioni malvagie. Nel frattempo, il nostro progetto contro il bullismo e il cyberbullismo procede, in ogni classe sono stati nominati due responsabili che hanno il compito di verificare l’andamento delle cose e devo dire che funziona. Non sono delle spie, sono dei ragazzi che hanno deciso di tutelare i più deboli. Ci vediamo ogni quindici giorni per fare il punto e più di una volta siamo riusciti a identificare comportamenti scorretti nei confronti di qualcuno più fragile. Sapete qual è un’altra cosa che ho scoperto? Aiutare gli altri regala forza, credo di più in me stesso e riesco ad essere più sereno. La cosa straordinaria è che ora tutti gli studenti dell’istituto sanno che possono trovare un primo aiuto direttamente dai propri compagni. Ora sto meglio, continuo anche a dimagrire, ma è soprattutto la vergogna che lentamente sta scomparendo. Mi vado bene così. Non ho colpe da espiare. Anche i prof hanno compreso quello che ho vissuto e mi è rimasta scolpita nella memoria una frase della Morbidelli che insegna italiano: «La parola diverso è l’essenza della vita; è la parola uguale che invece non esiste.» Penso che abbia proprio ragione, ci piaccia o no, ognuno di noi rappresenta una creazione unica e irripetibile. Se ci riflettiamo, non esistono due nuvole identiche e persino il filo d’erba di un prato può assomigliare agli altri, ma resterà sempre un qualcosa a sé stante e soprattutto degno del massimo rispetto. Dimenticavo: la pertica ancora non sono riuscito a risalirla ma ci proverò di nuovo perché se sconfiggi la paura hai già vinto in partenza. Tutto vero.

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