«Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre»
(Primo Levi)
Ve lo dico subito raga, questa è una storia incasinata e ancora non è finita, perché il mondo neppure vi potete immaginare quanto sia crudele. Voi lo sapete cosa significa“shit storm”? Vuol dire tempesta di merda. Detta così sembra una parolaccia ma se googli, in tre secondi scopri che se ne parla ovunque. A me più che una tempesta sembra che lo shit storm assomigli a una valanga, perché cresce, aumenta di secondo in secondo e tu non puoi fare nulla, o meglio, puoi aspettare che lo shit storm passi e quindi fare la conta dei danni e inoltre puoi pensare a quello che hai combinato ma ormai è troppo tardi.
Mi chiamo Ruben ma per tutti io sono Luna, che poi è la prima parte del mio cognome. Potrei leggervelo per intero il mio cognome, tanto la famosa tempesta mi ha già travolto, però preferisco non farlo. Ho quattordici anni, quasi quindici, ma addosso me ne sento mille. Vorrei spiegarvi cosa si prova se un esercito di persone che non conosci e non sai che faccia abbiano, se siano grandi o piccoli, biondi o mori, maschi o femmine, ti augurano di morire nel peggiore dei modi. Ma non basta; la ferocia dello shit storm non risparmia neppure chi hai vicino e che con questa storia non c’entra proprio niente. Hanno augurato la morte anche a mia sorella di sette anni e non vi dico che parole riservano ai miei genitori. Lo shit storm non ha un volto o una voce, è una specie di nuvola nera che ti avvolge e ti succhia la voglia di vivere. Rimani in piedi ma assomigli a quegli alberelli rinsecchiti in cui da anni non scorre neppure una goccia di linfa. Ecco, adesso mi viene la frase giusta: mi sento un morto che sta in piedi, questa è la mia condizione. Mica faccio lo scrittore, non è facile spiegarlo, ma quando ti trovi nel mezzo di uno shit storm il peggior momento della giornata è quando la mattina apri gli occhi e immagini tutto quello che ti potrà capitare nelle ore successive. I miei hanno dovuto prendere un avvocato esperto, perché istintivamente la prima cosa che abbiamo fatto quando è scoppiato il casino, è stata quella di chiedere scusa, per essere ancora più preciso aggiungo il testo del post che avevo scritto assieme ai miei genitori e pubblicato a nome mio: “Chiedo perdono a Sara e alla sua famiglia per tutto il dolore che vi ho provocato, vorrei tornare indietro ma questo non è possibile. Il mio pentimento nasce dal cuore, ma non sminuisce la gravità di quanto ho commesso”. Beh, scrivere quelle parole e postarle su tutti i social è stato come infilare la mano dentro la tana di un lupo affamato. Lo avevamo fatto d’istinto e abbiamo sbagliato alla grande. Avete presente uno sciame di vespe che improvvisamente si sveglia e vi assale? Più o meno è accaduta la stessa cosa. Mamma durante il secondo giorno di shit storm è svenuta, il dottore le ha dovuto prescrivere quelle “bombe” che ti inebetiscono perché altrimenti non sarebbe stata in grado di sopportare quella che i giornali chiamano “gogna mediatica”. Io questa cosa della “gogna mediatica” non l’avevo mai sentita dire ma è proprio così che stanno le cose. La gogna era un collare di ferro che piazzavano attorno alla gola di chi aveva commesso qualche brutto reato e poi lo lasciavano legato in piazza in modo che tutti potessero vederlo e giudicarlo. C’era chi passando lo insultava, chi gli sputava e chi lo prendeva a calci, beh, con la tecnologia è anche peggio perché la piazza non ha confini e quello sputo virtuale che ti lanciano non si asciugherà mai. Ora vi regalo un assaggio di quello che ci hanno scritto fino a quando non abbiamo chiuso tutti i profili, compresi quelli dei miei zii, dei miei cugini e pensate che ha dovuto chiudere il suo profilo anche uno che ha la sfiga di chiamarsi come me. A lui non è servito scrivere che era solo un caso di omonimia e che viveva in un’altra città. Ecco, dimenticavo, lo sciame malefico creato dallo shit storm è sordo e cieco. Non ascolta e non vede, colpisce e basta. È un assassino senza volto che al posto della pistola usa una tastiera. “Muori bruciato; maledico te e la tua schifosa famiglia nazista; per quelli come te ci vuole la camera a gas; spero con tutto il cuore che accada qualcosa a tua sorella, bastardo nazi”. Ecco, tutto questo moltiplicatelo per centomila e vi garantisco che le cose peggiori ve le ho risparmiate. I miei sono proprietari di un negozio di scarpe, lo shit storm ha investito anche il sito del negozio e sono stati costretti a chiuderlo, vi rendete conto? Ora va un po’ meglio ma ho trascorso settimane in balìa della disperazione più nera. Scrive Wikipedia: Disperato. Aggettivo: “che ha smarrito ogni speranza”. Sostantivo: (spregiativo), poveraccio, isolato. Non sono uno che brilla in grammatica, però io mi sento sia un aggettivo che un sostantivo appiccicati insieme. Io, per un lungo periodo, sono stato un poveraccio isolato che aveva perso ogni speranza. Il mondo dei social adesso mi terrorizza perché è affollato da orde di pazzi farneticanti e di haters. Purtroppo, e qui mi vergogno come un cane, anche io prima di finire nel mezzo dello shit storm appartenevo a quell’universo di folli che non riescono a comprendere che dall’altra parte della tastiera ci sono delle persone che piangono, ridono e che, insomma, sono come te. Un’altra cosa che mi fa star male da cani è che, oltre a quelli che mi odiano e mi insultano, ci sono anche dei gruppetti di pazzi che inneggiano alla bestialità che ho commesso. Cioè, mentre io ho compreso la follia del mio errore, per alcuni continuo a restare una specie di simbolo. Il mio nome è comparso persino nella curva di uno stadio, famosa per essere collegata a gruppi neonazisti. Durante la partita hanno mostrato uno striscione con su scritto: “Ruben uno di noi”. Non è vero che sono uno di loro, sono solo uno che ha commesso una grande stupidata, io non ho nulla a che spartire con quella gente e neppure tifo per quella squadra, eppure io non posso fare niente per evitare che questo accada. Dovrei uscire per strada e urlare «Non sono un nazista ma un semplice coglione»? Primo mi prenderebbero per un pazzo e seconda cosa non servirebbe proprio a nulla. Vedete, questa storia se ci penso bene assomiglia a un film, nel primo tempo io sono il cattivo che si accanisce con i deboli e poi nel secondo tempo da “predatore” mi ritrovo a essere “preda”. Ho compreso i miei errori, ho chiesto scusa, ma la parte marcia del web, quella di cui anche io facevo parte, non è interessata a comprendere, a verificare, ad approfondire. È esclusivamente concentrata sulla possibilità di odiare qualcuno. Dopo tutte queste chiacchiere è arrivato il momento di raccontarvi come sono andate le cose, è tutto così banale da far paura. Anche questo ho scoperto amici cari, per finire nel mezzo di uno shit storm non devi impegnarti più di tanto, è molto più facile di quanto possiate credere. L’episodio è avvenuto pochi mesi fa quando frequentavo la prima superiore, premetto che la mia è una normalissima famiglia, nel senso che papà e mamma come ho già scritto lavorano assieme in negozio, spesso io e mia sorella Fede siamo a casa da soli ma ce la siamo sempre cavata bene e poi al piano di sopra ci vive la signora Rossana che, se c’è bisogno di qualcosa, è sempre disponibile, tanto lei è in pensione e non ha un granché da fare. Io e Fede la chiamiamo zia perché praticamente ci ha visto nascere. Non so dirvi con precisione come è nata questa storia, ma io, Manu e Kris abbiamo iniziato una specie di challenge stupida legata all’Olocausto di cui avevamo parlato a scuola con la Prof. di italiano. La sfida consisteva nell’andare a ricercare su internet le immagini più scioccanti in assoluto: fosse comuni, cadaveri, fucilazioni, impiccagioni e altro ancora. L’importante era che fossero foto o video da pugno nello stomaco. Perché lo facevamo? Perché abbiamo iniziato? C’era una ragione politica? Qualcuno ci aveva istigato all’odio? Queste sono solo alcune delle domande che poi ci hanno posto in tanti a partire dalla Dirigente Scolastica, ma anche i genitori, una psicologa e persino gli agenti della Polizia Postale. Volete conoscere la verità? La mia risposta è sempre stata la stessa: «Non lo so. Era un passatempo. Non mi sono mai sentito un nazista e mai nessuno aveva tentato di inculcarci strane idee». Quelle immagini ci esaltavano, era quasi un gaming. I giornali hanno scritto di tutto, compreso il fatto che la superficialità racchiude il seme del male. Purtroppo, devo ammettere che le cose stanno proprio così, la superficialità sembra innocua ma in realtà è pericolosissima, se ci pensate bene la superficialità non ha un volto e neppure un odore, s’infila tra la gente senza fare rumore e quasi sempre viene sottovalutata, ma arriviamo adesso all’episodio che ha scatenato il casino. La mia scuola, un liceo artistico, si trova nel campus scolastico della città che non è una metropoli, neppure cinquantamila abitanti, siamo più o meno nel centro dell’Italia. Nella nostra classe c’è una compagna ebrea che si chiama Sara, io, anche se ho fatto comunione e cresima, non è che ne sappia molto di religione e non ho la minima idea di cosa differenzi un ebreo da un cattolico, per me in classe siamo tutti uguali, compresi Ahmed e Amina che sono musulmani. Onestamente non è che abbia mai notato differenze, a parte il fatto che Ahmed quando giochiamo a pallone è fortissimo in attacco, ma non penso che la religione c’entri qualcosa con il suo fiu to per il gol. Sara apertamente non l’abbiamo mai presa in giro, però tra di noi, ridendo, spesso facevamo delle battute in relazione allo sterminio di massa avvenuto nel corso della Seconda guerra mondiale. Fare una battuta scherzosa contro un tifoso di un’altra squadra o contro un ebreo era per noi la stessa cosa. Nessuna differenza. Ricordo che una sera Kris postò nella nostra chat una foto di Anna Frank, cambiando il suo nome in Sara Frank. Ci facemmo qualche risata considerando quel meme del tutto innocuo. Nulla di più. Noi eravamo questo, dispiace a dirlo ma è la realtà dei fatti. Un pomeriggio ero assieme ad alcuni compagni di classe nei giardini che si trovano proprio di fronte alla scuola e ci siamo scattati delle foto. Con noi c’era anche Sara. Era una giornata come tante altre, se non sbaglio saranno stati i primi di marzo perché era ancora abbastanza freddo. Quando sono rientrato a casa, maledetto quel momento, senza starci troppo a pensare, smanettando un po’ con Photoshop e qualche filtro, ho inserito il volto di Sara in mezzo a quello di altre povere deportate all’interno di un campo di concentramento. Per essere precisi era Birkenau, il centro di sterminio dove si trovavano le camere a gas. Erano donne dallo sguardo vuoto, tutte in fila, destinazione le famose docce che non servivano per lavarsi, in quanto al posto dell’acqua veniva erogato lo Zyclon B, un gas terribile che portava alla morte nel giro di qualche minuto. Ora queste cose le ho studiate e imparate poiché, dopo che è esploso il casino, io, Manu e Kris siamo stati obbligati a studiare in maniera approfondita ciò che accadde in quel periodo. Sapete una cosa? Inizialmente ci sembrava una punizione, ma giorno dopo giorno ci siamo resi conto di cosa fosse realmente l’Olocausto. Per la prima volta ho capito. Difficile spiegarlo ma è come se lentamente avessimo iniziato a scorgere l’orrore che si nascondeva dietro a tutte quelle immagini. Torno alle domande che poi ci hanno rivolto in mille. Non ho una spiegazione sul perché abbiamo considerato per settimane quelle foto e quelle immagini al pari di quelle dell’album delle figurine del calcio, ora mi vergogno, ora ho compreso e fatico però a trovare una risposta a tutta quella nostra indifferenza. Anzi, per noi era quasi divertente andare a caccia dell’immagine più drammatica. Torniamo ai fatti. Una volta che ho terminato di elaborare la foto l’ho condivisa nella nostra chat e, scusate la sincerità, è piaciuta tantissimo sia a Kris che a Manu. Erano talmente entusiasti che Manu ha pensato bene di pubblicarla nella chat di classe. Quello che è accaduto nelle ore successive lo potete immaginare. Sara è stata tra le prime a vederla e piangendo l’ha inviata via WhatsApp alla madre, anche altri l’hanno scaricata e quando poi è stata rimossa dalla chat era già arrivata sullo smartphone di un giornalista. Quella orribile foto nel giro di pochi minuti è divenuta virale, impossibile fermarla, impossibile arrestare quella diffusione che assomigliava al polline trascinato dal vento in primavera. Oramai il danno era stato fatto. A rendere ancora più grave la cosa è che i bisnonni materni di Sara dentro quelle camere a gas ci sono finiti veramente, figuratevi quanto clamore può aver scatenato l’intera vicenda. Uno dei momenti peggiori è stato quando nelle nostre abitazioni, simultaneamente, la Polizia Postale ha effettuato le perquisizioni. Ovviamente ci hanno sequestrato smartphone, computer e tablet ed è subito emersa la nostra collezione di orrori. Non solo quella, ma anche i nostri commenti attraverso la chat, l’entusiasmo di fronte a una catasta di morti, le battute su quelle povere persone ridotte a scheletri e quanto altro. Anche per Kris e Manu le cose si sono messe male, anzi malissimo, ma quella di cui si parlava maggiormente era la foto di Birkenau dove avevo inserito Sara. Il giorno successivo la notizia è comparsa sui giornali di tutta Italia e ne hanno persino parlato in alcuni programmi televisivi. Ovviamente il volto di Sara risultava oscurato ma gli articoli erano spietati e ricchi di dettagli, compreso il fatto della tragedia vissuta dai bisnonni di Sara. Negli articoli venivano citate sia la scuola che la città, i nostri nomi non sono mai stati pubblicati ma il mondo del web è implacabile. Siamo stati identificati quasi subito e poi con quel mio frettoloso post di scuse mi ero praticamente consegnato al mondo. In alcuni articoli ci hanno descritti come una piccola banda di giovani neonazisti. Qualcuno ha persino ipotizzato che avessi creato quella foto ispirato dalla drammatica storia della famiglia di Sara. Il fango, o meglio la merda visto che parliamo di shit storm, in queste circostanze ti arriva addosso da tutte le parti e non esiste un ombrello capace di ripararti da questa pioggia schifosa. L’odio è un qualcosa che non si appiccica addosso, l’odio è appuntito, ti entra dentro, assomiglia a un coltello affilato. Quasi sicuramente ci faranno ripetere l’anno, almeno così dicono, ma vi garantisco che rispetto all’enormità della vicenda si tratta di un aspetto quasi secondario. Fortuna ha voluto che la famiglia di Sara abbia deciso di non denunciarci, una sera ci siamo visti assieme alle nostre famiglie e non vi dico la vergogna iniziale, poi per fortuna la situazione si è tranquillizzata, quella che sinceramente non mi aspettavo è stata la proposta che mi ha rivolto il padre di Sara. Tra qualche settimana ho in programma un viaggio, i miei non potranno venire in quanto hanno il problema del negozio ma sono stati molto contenti che io abbia accettato. Assieme alla famiglia di Sara voleremo da Milano a Cracovia e poi da lì in auto (se non sbaglio sono solo una cinquantina di chilometri) andremo a visitare Auschwitz e Birkenau. Non so cosa aspettarmi ma già so che si tratterà di una di quelle esperienze che ti cambiano la vita. Siamo arrivati alla fine di questa specie di lettera che vi ho scritto e non sto a farvela lunga con dei consigli, quello che mi auguro è che se queste pagine dovessero finire all’interno di una classe, sarebbe importante leggerle con attenzione e soprattutto comprendere cosa ci può capitare nella vita se rinunciamo a immedesimarci negli altri, se non ci sforziamo di pensare, perché di questo si tratta: pensare prima di agire. Non è che sia un gran segreto, eppure noi questa regola apparentemente banale l’abbiamo saltata a piedi pari. Nelle settimane successive a tutto quell’inferno, la Prof. d’Italiano ci ha fatto leggere molti passaggi estratti dai libri di Primo Levi, uno scrittore che nel 1944 è stato internato ad Auschwitz ma che, a differenza dei bisnonni di Sara, è riuscito a tornare a casa. Da quel giorno Primo Levi ha dedicato la sua vita alla costruzione della pace, non quella teorica, ma quella che anche se non lo sappiamo è presente dentro ognuno di noi. Personalmente c’è una sua riflessione che mi ha profondamente colpito perché l’ho sentita mia sin dalla prima volta che l’ho letta. Magari la conoscete già ma no importa, io ve la regalo lo stesso e lo faccio con il cuore. “Perché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria?” È a questa domanda, che ci pone Primo Levi, che dobbiamo trovare una risposta.