«L’unico vero errore è quello da cui non impariamo nulla»
(John Powell)
Apro Google Maps e guardo le indicazioni stradali. La speranza che siano meno di seicento chilometri dura pochi secondi, giusto il tempo che occorre a Google di tracciare il percorso. Una specie di linea blu tremolante attraversa il display, sembra una goccia che scivola lungo il vetro in una giornata di pioggia; alla fine la linea blu si arresta, la meta è raggiunta, per l’esattezza sono 693 Km. Vabbè, non è proprio dietro l’angolo, ma quando devo incontrare dei ragazzi tutto mi sembra più leggero.
Parto dalla mia Senigallia in tarda mattinata e arrivo a Corigliano Scalo nel tardo pomeriggio del 21 novembre, giusto in tempo per provare i microfoni, scaricare nel pc della regia i file che avevo su una chiavetta ed entrare all’interno del Cinema Teatro Metropol, quasi mille posti, struttura imponente.
Siamo in provincia di Cosenza, appoggiati sulla piana di Sibari. Da una parte la costa ionica e dall’altra le montagne della Sila, belle, verdi e selvagge. È un angolo d’Italia che sembra lontano da tutto, anche per questi motivi la questura di Cosenza ha pensato di organizzare l’incontro coinvolgendo le scuole secondarie di secondo grado del territorio. Io sarò chiamato sul palco per raccontare alcune storie che in questi anni abbiamo raccolto con #cuoriconnessi, l’evento ruota proprio attorno a questo tema, e allora eccomi qui. La mattina successiva il teatro si riempie in fretta, i colori, le voci e gli occhi dei ragazzi sono gli stessi che incontro da oltre vent’anni a qualsiasi latitudine. Ricordano la primavera, sono energia preziosa che si sparge nell’aria. All’esterno del teatro è tutto un via vai di lampeggianti e di auto della
Polizia di Stato, mentre alla spicciolata fanno il loro ingresso in platea le cariche istituzionali più importanti della Regione. Ci sono giornalisti e telecamere, si respira l’aria del grande evento.
L’incontro va come deve andare, e cioè benissimo. Il silenzio degli studenti dice tutto. I telefonini scompaiono e ancora una volta le parole e i filmati proiettati sconfiggono la potenza magnetica dei display. Le storie di #cuoriconnessi rapiscono e coinvolgono l’intero teatro, emozioni che transitano veloci e che spesso lasciano segni importanti. Un tempo nutrivo qualche dubbio sull’efficacia di questi eventi, e
me ne uscivo dai teatri accompagnato dalla più subdola delle domande: «Sarà servito a qualcosa?». Beh, ora non è più così. Oggi sono sicuro che il famoso “qualcosa” è un seme che prima o poi si trasformerà in altro. Qualsiasi processo culturale ha poco a che fare con la legge del “tutto e subito”.
I cambiamenti profondi avvengono nel tempo e mattinate come quella trascorsa al Metropol aiutano a diffondere il profumo delle cose giuste, quelle che fanno bene all’anima e che ci fanno sentire parte di una comunità.
Finisce la manifestazione e mentre il teatro lentamente si svuota stringo mani e scattiamo foto con studenti e autorità. Quando sono ancora sul palcoscenico mi trovo a scambiare due parole con una ragazza in uniforme, si chiama Maria Laura Creazzo, è commissario capo del C.O.S.C. (Centro Operativo per la Sicurezza Cibernetica) della Regione Calabria, e cioè di quella che ancora oggi per abitudine e per
semplificare chiamiamo Polizia Postale. Non è complicato comprendere la sua passione per il lavoro che svolge, mi racconta di quanto sia difficile contrastare i reati online, mi parla della sua Reggio Calabria e dei progetti che la Polizia di Stato porta avanti insieme alla procura per i minori e ai servizi sociali, con l’obiettivo di recuperare ragazzi che hanno sbagliato accompagnandoli in un percorso di speranza e
di cambiamento. «A monte di tutto» dice Maria Laura, «c’è la nostra attività, basata sulle indagini, un’attività che è sempre abbastanza complessa e soprattutto figlia di un grande lavoro di squadra, dato che stiamo parlando di mondo cibernetico. Siamo dentro a un universo che è in costante evoluzione, quindi di conseguenza anche noi dobbiamo essere sempre aggiornati».
«Sai, Luca» mi dice, «una volta concluse le indagini, in sede processuale il procuratore potrebbe decidere di applicare la “messa alla prova”, e il giudice disporla; in questo caso il ragazzo dovrà seguire un percorso educativo strutturato dai servizi sociali, in collaborazione con noi. Al termine del percorso, se l’esito dovesse essere positivo, si procederà all’estinzione del reato: insomma, il minore potrà tornare
alla sua vita, senza macchie sul suo casellario giudiziale e soprattutto senza i traumi che possono derivare dal varcare il portone di un carcere minorile».
Il discorso di Maria Laura mi colpisce, non conoscevo l’esistenza della “messa alla prova”, ma soprattutto mi arriva dritta tutta la sua energia.
Mi viene naturale domandarle se tra i ragazzi che stanno vivendo il periodo di “messa alla prova” ci siano anche dei minori che hanno commesso reati online o comunque correlati all’uso dello smartphone. «Certo, Luca, certo! E purtroppo sono sempre di più. Molti dei reati commessi dai ragazzi s’intrecciano con l’universo online. E a volte neppure se ne rendono conto» aggiunge. Tutto ciò è sufficiente per farmi
decidere che con #cuoriconnessi andremo a raccogliere alcu ne di queste storie. Ipotizzo a Maria Laura la possibilità di inserirle nel prossimo libro di #cuoriconnessi, il quinto della serie per essere precisi, e già immagino che da questa esperienza potrebbe nascere un cortometraggio o qualcosa del genere. Siamo tutti e due entusiasti e ci scambiamo i numeri di telefono, forti della convinzione che le nostre parole si
trasformeranno in qualcosa di concreto. Certo, occorrono liberatorie, permessi del tribunale, dei servizi sociali, della Polizia di Stato e un’altra serie infinita di autorizzazioni, ma quando si crede fermamente in qualcosa gli ostacoli sono più facili da superare. Ed è così, su un palcoscenico vuoto, che ha inizio questa storia. A volte è sufficiente parlarsi cinque minuti per condividere un sogno e decidere di andarselo a prendere.
Reggio Calabria, primavera 2023
Sono passati sei mesi dall’evento del Metropol e tassello dopo tassello il mosaico ha lentamente preso forma. Alla fine ci siamo riusciti, abbiamo ottenuto tutti i permessi necessari e adesso è arrivato il momento di incontrare i ragazzi sottoposti all’esperienza della “messa alla prova”. Oltre ai ragazzi abbiamo previsto di ascoltare la voce di tutte quelle persone che rendono possibile l’applicazione concreta di questo importante istituto giuridico.
Maria Laura Creazzo e Mimma Matina, che è un’assistente sociale, sono state fondamentali nel trasformare la nostra visione in un qualcosa di tangibile: hanno parlato con i ragazzi spiegando loro il senso del progetto, e poi hanno parlato anche con il procuratore, che si è detto disponibilissimo a raccontarci la sua esperienza. Sono tre i ragazzi che hanno accettato di vivere questa strana avventura. Non è facile parlare dei propri errori e mettere a nudo le proprie fragilità, ma loro hanno detto sì.
Vogliono raccontarsi perché desiderano aiutare altri coetanei a non commettere gli stessi sbagli, perché a volte per rovinarsi la vita è sufficiente un clic.
«Non ne vale la pena», ecco a quale conclusione sono arrivati, e allora noi questo racconto abbiamo deciso di intitolarlo proprio così. Aeroporto, bagagli ritirati, macchina a noleggio e poi via in direzione del tribunale dei minori, che si trova in centro.
Reggio Calabria è una città molto complicata, poi passeggi sul suo lungomare e la bellezza in un attimo spazza via tutto. La città si affaccia sullo stretto di Messina e la Sicilia è lì di fronte, con l’Etna che al tramonto si tinge di rosa. Uno potrebbe passare ore a osservare quel fazzoletto di mare azzurro, sempre trafficato fin dalla preistoria. Allora erano le imbarcazioni dei Sicani e poi dei Siculi, oggi a solcare quelle acque sono le navi mercantili e da crociera, i pescherecci e i traghetti che rimbalzano da una sponda all’altra trasportando pendolari e turisti.
Sì. L’Italia è un paese meraviglioso. Non dimentichiamolo mai.
Quando finalmente arrivo al tribunale dei minori non c’è più spazio per la poesia, perché questo è un luogo dove la realtà è più dura della pietra, proprio come il materiale bianco che ricopre il palazzo. All’esterno, alla destra di un grande portone di legno scuro, c’è una targa in marmo:
«Ministero Giustizia. Istituto Osservazione per Minori». Nelle aiuole l’erba cresce troppo in fretta e s’infila ovunque. Il parcheggio è stracolmo di auto di servizio, oggi è giornata di udienze. Storie di dolore che s’intrecciano tra loro, storie di procuratori, di avvocati e di ragazzi con lo sguardo impaurito di chi è in attesa di essere giudicato. Mi vengono incontro Maria Laura e Mimma, che bello vederle! Sempre sorridenti, sempre disponibili, impegnate quotidianamente nell’eterna guerra che contrappone la
legalità all’illegalità, la speranza alla rassegnazione. Finalmente posso abbracciare Mimma Matina, che avevo visto solo in lunghe videochiamate. È quasi stupefacente l’effetto che si prova quando il virtuale lascia posto alla realtà! Ogni cosa acquista un valore diverso e tutto finalmente diventa vero e tangibile.
«Passano gli anni, Luca» mi racconta Maria Laura mentre ci dirigiamo verso il palazzo, «ma dietro i faldoni che tutti i giorni mi depositano sulla scrivania, composti da centinaia di pagine una sull’altra, immagino facce, storie di dolore e di stupidate commesse dai ragazzi con superficialità. All’interno di questi faldoni ci sono le loro voci, a volte le lacrime, c’è la loro iniziale arroganza buttata lì tanto per nascondere un mare di fragilità. Lavoriamo sempre a stretto contatto con la procura per i minorenni e i servizi sociali. Siamo una squadra vera, dialoghiamo, valutiamo le storie e le caratteristiche dei ragazzi, in modo che ogni percorso sia adatto a quel soggetto. Siamo sempre in collegamento, il nostro è un team di cui vado orgogliosa. Non ci sono standardizzazioni, perché ognuno ha un suo vissuto e un suo carattere.
Dobbiamo trovare il modo migliore per renderli consapevoli di quanto fatto. In genere non hanno ben chiara la gravità dell’errore commesso, e neppure immaginavano di essere perseguibili penalmente. Ma restando in contatto percepisco i loro percorsi di crescita».
Parlando attraversiamo il cortile centrale del tribunale: un ragazzino ospite della comunità di recupero che si trova in un’ala del palazzo prende a calci un pallone sgonfio. Cerca senza successo di fare qualche palleggio e poi si accende una sigaretta. Avrà forse tredici anni, non di più.
Domando a Maria Laura che cosa susciti in ragazzi spesso cresciuti in contesti difficili l’idea di dover dialogare con una persona in uniforme. «Per molti di loro l’uniforme inizialmente rappresenta un limite, sono diffidenti, anche perché hanno il terrore del giudizio, poi però tutto cambia. La loro crescita la noti di settimana in settimana: inizialmente sono chiusi, non parlano, sono guardinghi, poi dopo cinque o sei incontri ti trovi di fronte ad altre persone. Restano quasi sorpresi. Lo stupore, quando comprendono che non siamo lì per trattarli come numeri o pratiche da sbrigare, glielo leggi negli occhi. Ed è bello. Molto bello».
Mentre continuiamo a scambiarci riflessioni arriva Angela: non me l’aspettavo, mi coglie di sorpresa. Lei è una dei tre ragazzi che hanno deciso di raccontarci la loro storia sbagliata. Angela oggi ha circa 19 anni, ed è stata sottoposta alla “messa alla prova” perché in passato ha commesso dei reati online.
Indossa una t-shirt nera senza scritte, e pantaloni della felpa che danno sul beige. Faccia simpatica, grandi occhiali da vista tondi e dalla montatura scura che danno profondità al suo viso di porcellana. Capelli corti sfumati ai lati e un ciuffo che le spiove sulla fronte. I miei occhi cadono per forza d’inerzia sui tatuaggi che le riempiono le braccia, e siccome in genere dietro a un tatuaggio si nasconde un pezzo di vita, le chiedo di raccontarmeli. «Vedi» dice mostrandomi la parte interna dell’avambraccio destro, dove compare il numero 1951, «questo è l’anno di nascita di mia nonna, la persona più importante della mia vita. La mia salvezza. Invece quest’altra data, 1945, rappresenta mio nonno, che purtroppo non c’è più. Avevo solo tre anni quando è morto eppure lo ricordo».
Nella parte esterna dell’avambraccio mi mostra con orgoglio un’ancora che s’intreccia con una rosa: «Questo tatuaggio è il centro di tutto. Papà e mamma, la mia famiglia. Per loro farei ogni cosa. L’ancora perché sono per sempre ancorati a me, la rosa invece è simbolo di purezza».
Con la coda dell’occhio leggo una frase scritta in verticale lungo il braccio e Angela me ne spiega il senso senza darmi neppure il tempo di domandarglielo: «Vivo ogni secondo come l’ultimo secondo. Questa frase me la sono fatta tatuare quando ho attraversato un periodo terribile, non pensavo neppure di uscirne viva, ed è una frase che assomiglia a una rinascita. Ti devi lasciare indietro il passato, non è facile, ma per vivere devi guardare avanti, ci vuole forza di volontà».
Mi piace l’energia di questa ragazza, sento che posso farle domande senza timore di ferirla. La faccenda del periodo terribile mi ha colpito e allora le chiedo di parlarmi di questa parentesi oscura della sua esistenza. Angela ci pensa un istante, tanto per riordinare i pensieri e trovare le parole giuste: «Ero sovrappeso e mi attaccavano su questo, ero piccola, autostima zero. Ovviamente lo facevano anche attraverso le chat. Avevo paura, paura di tutto, e soprattutto di non essere “abbastanza” agli occhi delle altre persone. Oggi quasi mi vergogno di non essermi sentita “abbastanza”».
Non essere “abbastanza”. Pronuncia due volte questa frase, come per sottolinearla.
Non la interrompo perché è un fiume in piena, ma in realtà vorrei fermarla per parlarle di una poetessa straordinaria scomparsa nel 2009 che si chiama Alda Merini, vorrei raccontarle della Lettera di scuse a me stessa che Merini scrisse con la nitidezza di certe notti stellate: «Dovrei chiedere scusa a me stessa per aver creduto di non essere mai abbastanza»
dice un passaggio di quella incredibile lettera, e sono felice che ora Angela lo possa leggere tra le pagine di questo libro. Angela e Alda, epoche diverse, luoghi distanti e pensieri che si allineano sotto lo stesso cielo. Usciamo dal tribunale e passeggiamo senza una meta precisa, assieme a noi ci sono anche Mimma e Maria Laura. Alla fine continuiamo la nostra chiacchierata-intervista in una specie di arena deserta che si trova a due passi dal mare.
Arrivo al punto che è poi il motivo del nostro incontro. Come mai sei finita nei guai con la giustizia? È sempre decisa nelle risposte, Angela, parla quasi di getto: «Il mio periodo buio non c’entra niente con ciò che ho combinato. Ho commesso una cavolata, ero in seconda superiore e assieme a un mio amico abbiamo deciso di fare delle telefonate anonime a uno del suo paese. Io non sapevo neppure chi fosse. Per noi era semplicemente un gioco. Neppure lo offendevamo. La questione è andata avanti per parecchio tempo, poi un giorno è arrivata la telefonata della Polizia e mi sono trovata dentro una cosa più grande di me. La scheda telefonica era a nome di mio zio, ma chi ha fatto le indagini ha compreso
subito che non poteva essere lui l’autore di quelle telefonate, e così sono arrivati alla mia persona».
Angela mi racconta della paura, che le è piombata addosso come un macigno, unita all’ansia di trovarsi seduta in un’aula di tribunale di fronte a un giudice. «Cose che avevo visto distrattamente in tv. Ma ora io stessa mi trovavo dentro quel film».
Mi descrive anche il dolore dei suoi genitori, che comunque hanno sempre avuto le idee chiare: ad Angela non hanno concesso alibi, si sono semplicemente limitati a dirle che questa esperienza le sarebbe dovuta servire da lezione e che avrebbe dovuto accettare senza fare storie le decisioni della procura. «Sai, Luca» mi spiega Angela, «papà e mamma mi sono sempre stati accanto, ma senza giustificare quelle azioni. Purtroppo il mio periodo di “messa alla prova” è stato più lungo del previsto. Il giorno in cui ho varcato la soglia dell’aula del tribunale l’emozione mi ha giocato un brutto scherzo. Avevo sedici anni. L’ansia saliva, mentre le pulsazioni del cuore aumentavano di secondo in secondo, quel bum bum bum mi risuonava nelle tempie, cercavo disperatamente di incrociare uno sguardo amico. Avevo paura, e soprattutto ero conscia di non essere padrona della mia vita. Sarebbe stato un giudice a decidere il mio destino». Il suo racconto è quasi ipnotico. Quella mattina Angela era come una foglia sbattuta nel mezzo di una tempesta e alla fine l’accumulo di ansia le ha provocato una reazione incontrollata.
«Mi sono messa quasi a ridere e poi ho fatto qualche battuta fuori luogo, ed è per questi motivi che il magistrato ha deciso di allungare il mio periodo di “messa alla prova” da tre a sette mesi».
Ci fermiamo per qualche secondo, una nuvola passeggera ci scarica addosso qualche goccia di pioggia, mentre il cielo alle spalle di Reggio si è fatto plumbeo. Dopo aver riordinato un minimo le idee le chiedo se il prolungamento della “messa alla prova” l’abbia portata a provare rabbia verso chi la stava giudicando, e magari anche verso la Polizia e i servizi sociali.
«Aveva ragione il procuratore» mi dice Angela con grande convinzione, «gliene sono grata perché in quei sette mesi sono maturata e cresciuta. Durante quel periodo ho scoperto cose importanti e vissuto esperienze positive». Ci pensa, poi prosegue: «E comunque l’aula del tribunale, anche se poi scopri che quelle persone sono lì per aiutarti e non per giudicarti, non si augura a nessuno».
Mi sorprende la maturità di questa ragazza, e soprattutto mi colpisce l’efficacia della “messa alla prova”. Ora inizio a capire l’importanza di questo percorso formativo e non punitivo.
«Quando si ha uno smartphone in mano si pensa che sia tutto possibile, tutto un gioco. Non è così però che stanno le cose» mi racconta Angela. «Lì dentro c’è la nostra vita e il nostro modo di essere, di comunicare e rapportarci con gli altri. Prima sicuramente lo usavo in maniera superficiale, adesso invece la tecnologia di uno smartphone mi aiuta a fare i compiti o a videochiamare le persone a cui voglio
bene. A volte cerco anche di usarlo meno, concentrandomi maggiormente sulla realtà».
Ci alziamo da questa specie di anfiteatro moderno e facciamo due passi per il lungomare, che nel frattempo si è riempito di gente. L’acqua dello stretto regala sfumature che vanno dall’azzurro al blu cobalto, qualche pescatore bivacca sugli scogli con la sua canna, mentre le navi attraversano lo stretto seguendo una rotta antica come il mondo. Angela mi spiega che non ha molta voglia di studiare, e
comunque se troverà la forza e le energie per farlo le piacerebbe diventare maestra nella scuola per l’infanzia. Capisco che i bambini le piacciono, poi le faccio un’ultima domanda, non preparata, un po’ come tutte le altre. Le chiedo per quale motivo abbia deciso di mettersi a nudo raccontando la sua
storia, e anche questa volta Angela risponde con prontezza:
«La racconto in primis per tutti quelli che hanno un carattere simile al mio e non pensano alle conseguenze di ciò che fanno. Io sono molto istintiva. Voglio aiutarli a ragionare, specialmente quelli che hanno dodici, quattordici anni, perché quando poi ti avvicini ai diciotto sei già più consapevole, almeno questa è la mia esperienza personale».
Facciamo qualche altro passo in silenzio. Sento che Angela sta mettendo in fila altri pensieri e le lascio tutto il tempo per esternarli. «Sai, ora mi sento più grande perché prima di agire cerco sempre di pensare alle conseguenze delle mie azioni. Riesco a mettermi nei panni degli altri, prima non era così. E poi c’è un’altra cosa che voglio dirti: io se posso cerco di aiutare il prossimo, se vedo una persona in difficoltà mi metto a disposizione. Anche questo è essere grandi».
È tempo di salutarla, deve prendere un autobus per rientrare a casa. Angela è forte, carica di energia e soprattutto capace di sognare il suo futuro. Bene, che se lo vada a prendere, perché lei «è abbastanza» per mettersi in tasca la vita che desidera. Angela. La ricorderò come la ragazza che ha saputo citare
un verso di Alda Merini senza neppure conoscerlo. Mentre Angela si allontana, Mimma racconta di quanto quella ragazza sia “tosta”.
«Il reato che ha commesso» dice Mimma «nasce dall’inconsapevolezza. Ha dovuto comprendere che un uso sbagliato del telefono, a volte, per quanto possa sembrare irrilevante, significa compiere un reato. Angela è una persona solare ed è stato gratificante sentirle dire che questo percorso l’ha arricchita, accelerando il suo processo di maturazione. Pensa» prosegue Mimma, «era quasi contenta di prendere parte agli incontri, e questo è un risultato enorme. Ricordiamoci che i ragazzi sottoposti alla “messa alla prova” sono obbligati dalla procura a seguire il percorso, è un impegno non da poco che si protrae almeno per qualche mese: insomma, e questo ci tengo a dirlo, non si tratta di una passeggiata».
Decidiamo di spostarci dalla zona del mare. È una giornata sempre più calda, e nel frattempo le nuvole sono scomparse dietro le montagne. Schivando il traffico più intenso, tra una scorciatoia e l’altra arriviamo all’ufficio di Mimma. Quartiere popolare densamente abitato, non ci vuole troppa fantasia per immaginare che, per un adolescente che vive in certe zone, inciampare nell’illegalità sia quasi la regola.
L’ufficio è a piano terra, accanto a un citofono c’è una targa in ottone: «Ministero della Giustizia. Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile. Ufficio Servizio Sociale Minorenni».
Mimma mi fa strada, ci tiene a presentarmi tutti i suoi colleghi. Gran parte di loro sono perennemente in “trincea”, immersi e spesso travolti da storie di dolore e di emarginazione.
Si respira gentilezza, lì dentro. Ho quasi la sensazione di trovarmi a casa. Mentre qualcuno ci sta preparando un caffè, Mimma mi spiega che oggi i social vengono utilizzati con una tale disinvoltura che nessuno è più in grado di separare il lecito dall’illecito, il giusto dallo sbagliato. Un tema forte che purtroppo non è circoscritto ai soli ragazzi ma investe anche la stragrande maggioranza degli adulti. Parlandone con i suoi compagni di lavoro di fronte alla famosa tazzina di caffè bollente, emerge il fatto che i ragazzi che si trovano ad affrontare il percorso della “messa alla prova” in moltissimi casi hanno commesso reati collegati al mondo digitale, e questo numero tende ad aumentare.
C’è chi ha postato foto pedopornografiche, chi ha ripetutamente minacciato altri coetanei, oppure pubblicato le immagini di una rissa. È lunghissimo l’elenco delle azioni illecite commesse online.
I tempi sono stretti e dobbiamo andare. Dopo aver salutato la dirigente dell’ufficio, che si chiama Rosa Maria Morbegno, e tutti gli altri, assieme a Mimma facciamo nuovamente rotta verso il tribunale dei minori, perché dobbiamo incontrare Andrea (nome di fantasia), altro ragazzo sottoposto alla “messa alla prova”.
Nel cortile del tribunale c’è il solito ragazzino. Questa volta non ha il pallone, ma è seduto sui gradini, ancora con una sigaretta tra le mani. Andrea arriva puntuale, indossa una felpa verde chiaro e i pantaloni grigi della tuta. Inizialmente percepisco una certa diffidenza, forse prima di aprirsi deve capire chi ha
di fronte, poi iniziamo a chiacchierare di calcio e di minuto in minuto le cose si sistemano. Una cosa però mi è chiara: a differenza di Angela, per Andrea raccontarsi è veramente difficile, è un ragazzo timido e riservato. Visto che riprenderemo l’intervista con le telecamere, per rispettare la sua privacy lo faccio accomodare su una sedia, di spalle, al centro del cortile. Per sicurezza gli faccio anche alzare il cappuccio
della felpa, così siamo certi che nessuno potrà riconoscerlo. Mi incuriosisce l’idea di ascoltare la sua storia, ma lui ancora prima che si accendano le telecamere ci tiene a dirmi che la “messa alla prova” è una grande opportunità fornita ai ragazzi per potersi reintegrare nella società. «Io la faccio da un anno e non è la prima volta che commetto errori. Mi sono trovato a sbagliare due volte perché ho condiviso foto
pedopornografiche. Questo ho fatto».
Spesso associamo l’idea della pedopornografia esclusivamente all’immagine di bambini, ma in realtà qualsiasi foto intima di un minore, e quindi di una persona che non ha ancora compiuto diciott’anni, rientra nella pedopornografia.
Nel caso di Andrea, le foto pubblicate riguardavano una ragazza adolescente. Percepisco l’imbarazzo che sta provando nel raccontarmi questa brutta esperienza. Vorrei passare ad altre domande, ma dopo un lungo sospiro lui riprende a parlare: «Sbagliare di fronte a Internet è facilissimo, basta un niente. Il mio
errore, anzi i miei errori, sono figli della stupidità e dell’inconsapevolezza. Se ho deciso di parlare, e non ne avevo la minima voglia, è per far capire agli altri ragazzi che non ne vale la pena di commettere cavolate di questo genere. Se offendi qualcuno online, se scivoli nel revenge porn o pubblichi video offensivi e via dicendo, non solo ferisci altre persone, ma è principalmente a te stesso che stai facendo del
male».
Si sta sbloccando e ora comincia a parlare in maniera più fluida. Ci tiene a sottolineare, cosa che colpisce anche Mimma, che ha trovato un grande aiuto nelle istituzioni.
«Mi sono dovuto ricredere, avevo dei forti pregiudizi nei confronti delle istituzioni. Non dico che rappresentassero il nemico, ma quasi. Inizialmente mi sembrava una sfida; loro su un fronte e io sull’altro, invece lo Stato, procuratore compreso, è sempre dalla tua parte, nessuno ha intenzione di farti del male, o chissà che cosa. È stata una sorpresa».
Arriva Maria Laura Creazzo e Andrea non se ne accorge, perché è di spalle. Fermiamo l’intervista e quando lui si volta cerca di nascondere un sorriso che gli parte dal cuore.
L’affetto sincero e profondo che li lega è davvero toccante. Storie dentro le storie che galleggiano sopra equilibri delicati, in quanto il rispetto dei ruoli deve sempre avere una sua centralità. Maria Laura e Andrea si sfottono, ridono, poi tutti assieme decidiamo di concludere l’intervista il giorno successivo in un tratto di lungomare deserto. Da quanto ho capito dovrebbe trattarsi di una specie di giardino con vista
sulla Sicilia.
«Prima ho un colloquio di lavoro e poi vi raggiungo. Ci vediamo domani verso mezzogiorno. Adesso corro, che sono in ritardo» dice Andrea mentre abbandona il cortile.
Maria Laura ci sorride e commenta: «Come fai a non portarti nel cuore certe storie? La loro crescita regala un senso al nostro lavoro».
«Andrea è un ragazzo sensibile» aggiunge Mimma, «lui per due volte si è trovato coinvolto nel percorso di “messa alla prova”, e ne parla come di un periodo buio della sua vita, ma ora ha fatto un cambiamento eccezionale. Sono toccata dalla sua umanità. È importante raccontare queste storie perché tutti devono sapere che nella vita si può sempre cambiare. Chi perde la speranza rinuncia a vivere. Per molti di loro è una rinascita. Io mi porterò sempre dietro le loro storie. È un arricchimento anche per me».
Saliamo al piano superiore del tribunale perché dobbiamo incontrare il procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni, Roberto Di Palma. Grande esperienza, una vita trascorsa a combattere le mafie di ogni genere. Quando gli affidarono l’incarico di coordinare la cattura dei latitanti, in poco più di due anni riuscì ad arrestare diciotto fra i trenta più pericolosi ricercati d’Italia.
Sono curioso ed emozionato, perché queste sono le persone di cui abbiamo grande bisogno. Gente che si mette in gioco senza risparmiarsi e che ogni giorno combatte per affermare quel concetto di legalità che a volte sembra scomparso.
Il procuratore ci viene incontro lungo le scale, barba leggermente incolta e giacca ruggine perfettamente intonata con la cravatta, fisico imponente e soprattutto un’energia che riesco ad avvertire quando ancora non ci siamo neppure stretti la mano. Ha una voce solida, di quelle di cui ci si fida, e lo sguardo di chi il mondo lo ha visto da vicino. Mentre mi accomodo di fronte alla sua scrivania osservo quell’ufficio denso di cose, foto e oggetti che raccontano la sua lunga storia di uomo di giustizia. Non ho neppure bisogno di porre domande, il procuratore Di Palma mi spiega subito che lavorare con i minori non significa solo applicare la legge, in quanto con loro prima di ogni altra cosa viene l’umanità.
Sono giovani che si stanno formando, affacciandosi al mondo, e quindi vanno aiutati.
«Sai una cosa» aggiunge dopo una breve pausa, «molti dicono che i giovani sono il futuro, ma secondo me non è così. Loro sono il presente. È ora, nel momento dell’errore e del disagio che io, inteso come procura, debbo aiutarli. La prima cosa di cui questi ragazzi hanno bisogno, quando si trovano a fare i conti con la legge, è un abbraccio, hanno bisogno di incontrare qualcuno capace di ascoltarli, di dar
loro importanza e di concedere credito e fiducia. Quando si sentono valorizzati non deludono mai».
Ripenso ad Angela e al suo non sentirsi “abbastanza”.
Quanta fragilità, quante paure nascoste dietro il display di uno smartphone. È tutto così maledettamente complicato. Chissà per quale motivo mi viene spontaneo domandargli se lui i ragazzi li guarda negli occhi. Il procuratore sorride, evidentemente la domanda non è poi così strampalata: «È fondamentale cercare il loro sguardo, perché è importante far loro comprendere che noi siamo qui per aiutarli. Un vecchio adagio recita che gli occhi sono lo specchio dell’anima, penso sia vero».
Inevitabilmente mi sposto sul mondo online, e il tono del procuratore Di Palma cambia leggermente, comprendo che è un argomento caldo: «È un problema enorme, per inquadrarlo dobbiamo risalire alle famiglie. Gli smartphone vengono regalati alla prima comunione, ma i bambini li usano già da prima. Qual è il controllo esercitato dai genitori? Cosa fanno per guidarli in un mondo dove con un clic sei dentro
un sito pornografico o di fronte a un video violento? Ovvio che un bambino o un adolescente non ha lo spirito critico necessario per affrontare tutto questo. Non demonizzo nulla, ci mancherebbe, ma l’approccio a questo universo si può fare solo con la guida di un adulto».
Di Palma mi conferma che i reati commessi online dai minori sono in aumento e che l’inconsapevolezza regna sovrana. Queste riflessioni mi fanno comprendere quanto un progetto fluido come #cuoriconnessi, sempre attento a gettare lo sguardo verso nuove tendenze, sia attuale e per certi versi indispensabile.
Quando al procuratore riferisco le belle parole che i ragazzi gli riservano, in maniera sincera e soprattutto spontanea, lui sorride: «È una gratificazione doppia. C’è la grande soddisfazione personale, ma la gioia autentica riguarda il riconoscimento riservato all’istituzione».
Poi mi spiega quanto sia importante l’istituto della “messa alla prova”, e aggiunge: «Dico sempre ai ragazzi che, se fatto bene, l’istituto della “messa alla prova” non è una pena ma un momento propizio da sfruttare per diventare persone migliori. È un’esperienza di vita, magari il minore si trova a prestare servizio in una mensa per poveri o a svolgere altre attività in grado di fargli toccare con mano quanto sia
importante non gettare al vento le proprie fortune. Li avviciniamo alla lettura di un libro e ad altre esperienze formative, naturalmente possono contare su un costante appoggio psicologico. Io sono un grande sostenitore della “messa alla prova”, ma non perché tutto si risolve con una pacca sulla spalla. Non è così che stanno le cose. Specialmente in una realtà complicata come quella calabrese, l’immagine di uno Stato che in un momento di difficoltà ti è vicino, ti tende una mano e ti aiuta, ha un peso specifico enorme per la società, perché si crea un cittadino consapevole e non un suddito».
Spente le telecamere e ultimata l’intervista resto ancora a parlare per dieci minuti con Di Palma. I suoi racconti sono potenti e soprattutto ricchi di dettagli e sfumature, che aiutano a farmi comprendere quanto sia importante conoscere prima di giudicare. Ogni traiettoria di vita è unica e irripetibile.
Mentre il procuratore mi accompagna verso le scale aggiunge un’ultima riflessione: «Dico sempre ai ragazzi, quando si conclude il periodo di “messa alla prova”: ricordati di quando eri con le spalle al muro, di quando tutti sembravano averti abbandonato, di quando gli amici con cui avevi commesso i reati erano scomparsi, e tu eri da solo a rispondere delle tue azioni. In quel momento lo Stato ti ha teso una mano».
Si è fatto tardi e, accompagnato da Mimma e Maria Laura, torniamo al pian terreno. Dall’esterno arrivano i colpi sordi e ripetuti del solito pallone calciato contro il muro. È sempre lui, il bambino travestito da duro. Il pacchetto di sigarette è appoggiato sul davanzale di una finestra che guarda sul corridoio interno. Capelli rasati sulle tempie, ciuffo sulla fronte e qualche tatuaggio sparso sul corpo. Indossa una canottiera gialla dei Lakers con il numero 23 stampato sul petto, e pantaloni corti troppo grandi che gli scendono fin sotto le ginocchia. Sneakers alte e consumate ai piedi. Ha molte cicatrici sulle braccia, troppe, ma forse sono le ferite invisibili quelle che fanno più male. Non conosco la storia di quel bambino cresciuto troppo velocemente, ma per capire la sua sofferenza è sufficiente guardarlo. Ripenso a ciò che ha detto Angela: «Il procuratore? Una persona straordinaria, perché ti ascolta, ti capisce e ti aiuta a crescere». Ora che l’ho conosciuto di persona le parole di Angela mi appaiono ancora più chiare e convincenti. Anche Andrea mi aveva raccontato qualcosa di simile. Alla fine questi ragazzi, grazie al lavoro di Polizia, procura e servizi sociali, hanno intravisto nello Stato una specie di amico capace di aiutarli concretamente e di indicargli la direzione. Se è giusto pagare per il reato commesso, sentirsi poi aiutati a intraprendere un cammino corretto è addirittura fantastico. Quanto vale sentirsi gratificati per ciò che si è? Quanto è importante quell’abbraccio che si sono scambiati Andrea e Maria Laura?
Quanto cambia la percezione della legalità in un adolescente, quando scopre che lo Stato non è solo quello che condanna e reprime ma un punto di riferimento? Questi ragazzi non immaginavano che dentro quel tribunale avrebbero conosciuto persone che si sarebbero interessate al loro vissuto e ai loro sogni. Nel mondo degli invisibili, vedersi e sentirsi riconosciuti come individui rappresenta forse la
gratificazione maggiore.
La giornata è stata intensa, non ci siamo neppure accorti di aver saltato il pranzo, e mentre attendiamo Islam, il protagonista della nostra terza storia, Mimma mi spiega che il lavoro di squadra è una garanzia. «È impensabile, di fronte a progetti come questo, non agire di comune accordo e in sintonia. Il nostro è un lavoro complesso e armonico. Siamo come un’orchestra, se ci fosse una sola nota stonata ce ne
accorgeremmo subito. Quando i ragazzi entrano nel circuito penale devi affrontare la questione non solo sul piano giuridico, è importante entrare nel loro vissuto e nella loro vita.
Ci definiscono “operatori del cambiamento” ma in realtà siamo anche accompagnatori di coloro che hanno commesso reati. La loro crescita personale in definitiva è il nostro grande obiettivo».
Chiedo a Mimma cosa si fa durante il periodo di “messa alla prova” e come si cammina assieme a questi ragazzi: «Per ogni ragazzo esiste un approccio diverso, i percorsi sono individuali e mai standardizzati. In linea di massima si tratta di attività di volontariato, mediazione penale, giustizia riparativa, lavori socialmente rilevanti proprio dal punto della vista della crescita. Entriamo nelle loro vite in punta di
piedi. La “messa alla prova” consente una fuoriuscita indolore dal circuito penale».
Mi viene spontaneo domandarle se ci si abitua ad accompagnare un ragazzino in un’aula di tribunale: «No, non puoi farci l’abitudine, anche se quell’azione è disciplinata dalla normativa. Noi siamo chiamate a fornire assistenza, supporto e sostegno in tutte le fasi del procedimento e, aggiungerei, specialmente nella fase iniziale, perché il primo impatto con l’aula è uno choc. Lì dentro il ragazzo comprende che nella
sua vita sta accadendo qualcosa di importante, spesso è in quel luogo che inizia a mettere a fuoco gli errori commessi. Ma prima li prepariamo, cerchiamo di conoscerli meglio e di creare un rapporto di empatia, perché guadagnarsi la loro fiducia è la prima cosa».
Fatico a capire quanto sia complicato e angosciante trovarsi in un’aula in veste di imputato, seduto tra giudici, cancellieri, avvocati e persone in uniforme. Qualsiasi reato si abbia commesso, questa esperienza è già parte della pena. Mimma rimane in silenzio per qualche istante, poi aggiunge: «Sai qual è una cosa bella e per certi versi tenera? Quando entrano in aula, i ragazzi, che io ho già conosciuto nei colloqui precedenti, mi cercano con lo sguardo per trovare un volto amico, lo fanno per sentirsi meno soli in un
momento così complicato della loro vita».
Islam dovrebbe arrivare a minuti, da quello che mi dicono lui ci tiene più di tutti a raccontarsi. Sentirlo al telefono è stato sufficiente a comprendere che mi troverò di fronte a un ragazzo molto sensibile e di grande talento. Per sommi capi conosco il reato che ha commesso, ma ho preferito non approfondire troppo. Chi leggerà il libro o vedrà il documentario vorrei che percepisse la spontaneità che accompagna ogni singolo istante della narrazione. Le cose troppo costruite sono meno coinvolgenti, quasi fossero avvolte dal cellophane.
A volte è l’imperfezione a rendere credibile una storia, forse perché la vita stessa ha poco o nulla di perfetto e lineare. Finalmente compare. Deve prima attraversare i controlli che precedono l’ingresso al tribunale, poi ci viene incontro sorridendo. È alto e magro, indossa una bella felpa rossa con i bottoni e le maniche blu. È quella dei New York Yankees, jeans neri e Nike fiammanti ai piedi. Difficile comprendere
perché dopo un primo abbraccio io rivolga a quel ragazzo una domanda così forte. Praticamente gliela sbatto in faccia:
«Quanto sei incazzato, Islam?» E lui mi risponde guardandomi negli occhi: «Lo sono stato tanto. Un casino. Adesso va meglio, ma io dentro la rabbia ci sono cresciuto». Questo rapido scambio di battute ha un effetto immediato, è stato come azzeccare la password giusta per stabilire un contatto sincero. Mentre cerchiamo di capire quale potrebbe essere la location migliore per girare la nostra intervista, Islam mi dice: «Luca, nessuno mi aveva mai chiesto quanto fossi incazzato. È importante, questa cosa».
Decidiamo di girare il video dove s’intrecciano vite e destini, resurrezioni e fallimenti, lacrime di gioia e di disperazione. L’aula del tribunale. Per lui non ci sono problemi, dice che si può fare, perché adesso riesce a stare in quella stanza senza provare angoscia o rabbia.
Assieme a Mimma percorriamo il lungo corridoio che conduce all’aula. In fondo sulla destra c’è una porta con una targa di ottone: «Aula Dr. Flavio Pachì». È come nei film, ci sono le panche in legno beige e più in alto lo scranno del giudice. Sopra la sua postazione campeggia in bella mostra la frase che è alla base dell’intero ordinamento giudiziario:
«La legge è uguale per tutti». Islam per qualche secondo va a sedersi nel posto dove gli imputati vengono chiamati a deporre e prende dal banco un foglio in una cartellina di plastica, su cui c’è scritto: «Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza». A poterle toccare quasi con mano, quelle parole pesano come pietre. All’interno di questa stanza è tutto terribilmente reale, i microfoni appoggiati sui banchi, i posti riservati agli avvocati, ai familiari, ai testimoni, agli imputati, agli assi stenti sociali e a tutte quelle figure che ruotano attorno a un processo.
Le telecamere sono pronte e possiamo iniziare il nostro viaggio all’interno del mondo di Islam. Mi riallaccio alla domanda che gli ho posto appena ci siamo conosciuti e chiedo cosa sia per lui la rabbia: «La rabbia è un sentimento molto complicato, è diverso dal litigare con qualcuno. La rabbia è più profonda e io me la sono tenuta dentro per troppo tempo. Anni. Andava di pari passo con la depressione e la frustrazione. Io la mia rabbia l’ho riversata addosso a chi mi faceva del male. La cosa grave è che provavo un piacere enorme nel farlo».
Le parole di Islam rimbombano all’interno di quell’aula vuota, è un’intervista quasi surreale, sembra più un film che un documentario. Arriviamo al punto centrale della vicenda. Domando in maniera diretta, a quel ragazzo di origine marocchina dallo sguardo profondo, che cosa abbia subìto per essere così arrabbiato. «Hanno cercato di convincermi per anni che il mondo non era un posto adatto a me. Bullismo, cyberbullismo, razzismo. Io non mi sono mai sentito a casa, quando invece ho tutto il diritto di appartenere a questa società, di sentirmi vivo e soprattutto di poter essere me stesso».
Domando se alla fine ci si abitua alle ferite, e la risposta arriva subito: «Diciamo che anche se le ferite non fanno più male, resta sempre quel sentimento che ti fa sentire diverso da loro. Cerchi di evitarli, di rimanere distante e di trovare la felicità, o qualcosa del genere, in altre maniere».
«Islam, come mai sei finito alla “messa alla prova”? Cos’è successo?»
Mi guarda e nonostante la domanda sia pesante si mette quasi a ridere. «E come te lo spiego? Partiamo da un fatto, il reato ha a che fare con apparecchiature elettroniche e informatiche. Io mi sono appassionato al mondo digitale.
Oltre che cazzeggiare su Instagram, navigare su YouTube o scrivere le minchiate nelle chat, ho fatto altro, tutto da autodidatta. Volevo raggiungere un livello di conoscenza superiore. Durante il lockdown, avendo ancora più tempo a disposizione, mi sono evoluto ulteriormente. Nello stesso tempo covavo un bisogno irrefrenabile di vendetta verso quei coetanei che da sempre mi bullizzavano. Da quando li conosco non mi viene in mente una sola settimana in cui non lo abbiano fatto. Alla fine mi ero quasi abituato a quelle
cattiverie online e offline. Ho condiviso l’isolamento per l’epidemia con il mio smartphone; anzi, eravamo in tre, perché assieme a noi c’era anche la rabbia, quella cattiveria di cui ti parlavo prima. Sai come mi sono vendicato nei confronti di quei ragazzi? Beh, la cosa peggiore che ti poteva capitare durante il lockdown, specialmente per un adolescente, consisteva nel non avere più contatti con il mondo. Si poteva
comunicare solo attraverso internet, e io li ho colpiti proprio lì. Sono riuscito a isolarli da tutto, comprese le lezioni a distanza. Li ho cancellati dal mondo bloccando ogni loro dispositivo, in parole povere gli ho reso la vita impossibile.
È stato come mettergli del nastro adesivo sulla bocca, bendarli e chiuderli in cella. Sapevo che stavo commettendo un reato, ma quello era il mio sfogo. Dovevo farlo e provavo anche piacere. Non avevo il pc o altri strumenti sofisticati, mi sono ingegnato esclusivamente con lo smartphone».
Gli chiedo come la Polizia Postale sia arrivata a lui. «Ho compreso che mi avrebbero individuato quando si
sono presentati a casa di un mio compagno, definiamolo alleato, visto che facevamo le stesse cose. Per prima cosa gli hanno sequestrato il telefono. La settimana successiva sono risaliti a me, solo che io non avevo la minima idea di quali sarebbero state le conseguenze di ciò che avevo commesso.
Immaginavo che si sarebbero limitati a una serie di rimproveri, nulla di più».
Tossisce ripetutamente, usciamo un attimo in cortile e si accende una sigaretta. Non resisto e come il più monotono dei padri gli dico che quel cavolo di fumo è veleno. Mi osserva e non mi manda a quel paese, mi risponde che prima o poi smetterà, perché anche questo rientra nel suo programma di rinascita. Alla fine mi dice anche grazie.
Noto che Islam mentre si racconta ogni tanto osserva l’aula con sguardo indecifrabile. Gli chiedo cosa rappresenti per lui quel luogo: «Mi fa venire in mente tante cose, la mia rabbia ma anche la felicità. È come se ci fossero due Islam. Il primo, quello arrabbiato e meno razionale, si domandava, specialmente all’inizio della “messa alla prova”, cosa c’entrasse lui con questo posto. Quella versione di Islam era in
guerra contro tutti. L’altro Islam, quello di oggi, dice che è giusto essere passati attraverso il tribunale, perché chi sbaglia paga. Questa voce, che è quella giusta, vuole anche convincermi che questo posto è il luogo perfetto per costruire un futuro migliore ed entrare a testa alta nella società».
«Quindi la “messa alla prova” funziona» concludo io. Mi interessa approfondire questo aspetto. Lui risponde con calma, ogni parola non è mai frutto del caso, cerca di curare ogni sfumatura linguistica, anche la più impercettibile, in modo da ridurre al minimo ogni possibile ambiguità su quanto sta dicendo. «La “messa alla prova” in sé non ti cambia. È la convinzione di essere all’interno di questo percorso a fare la differenza. Si tratta di un’esperienza molto positiva e utile, ma il passaggio fondamentale, lo scatto che ti porta al cambiamento, è un altro. Devi smettere di farti la domanda che tutti si fanno: perché devo fare questo ed essere qui? Una volta che ti lasci alle spalle questa domanda si allenta anche la rabbia e inizi a comprendere che puoi uscire dalla logica negativa che ti trascinava sempre verso il fondo. Oggi se penso a quelli che mi hanno fatto del male mi viene da dirgli grazie. Grazie perché mi hanno fatto crescere. Il mio cervello non è più quello di un bambino, spesso mi trovo a discutere di politica con persone più grandi di me, e non solo di politica. Sì. Sono cresciuto dentro».
Voglio sapere dell’altro: «E che mi dici del procuratore Di Palma?» Risponde all’istante: «È una persona speciale, che fa molto di più di quanto deve. Se ho compreso certe cose è proprio grazie a lui». Poi il suo sguardo si sposta verso Maria Laura Creazzo. «E soprattutto grazie a lei. E dire che la gente in uniforme non la sopportavo». Ripenso alle parole che Di Palma aveva speso riguardo a Islam: «Lui deve fare ancora molta strada, perché il pericolo di perdersi o di cadere di nuovo è sempre dietro l’angolo. Noi siamo riusciti ad aiutarlo, forse siamo stati capaci di convogliare il suo talento, e cioè la sua passione per la
tecnologia e il mondo digitale, sul binario corretto. Islam ha potenzialità in campo informatico che non sono di poco conto. Quello potrebbe essere il suo futuro».
Siamo quasi alla fine della nostra chiacchierata e arrivo alla domanda delle domande, quella che rimanda al titolo di questo capitolo: «Islam, ne valeva la pena?»
Avverto nel suo tono una sincerità totale. «Non vale la pena odiare» mi spiega con quel tono profondo che raramente troviamo in un ragazzo della sua età, «perché l’odio non è mai una soluzione. È un sentimento che ti corrode e ti fa stare come un cane, ma per gli altri, quelli che stai odiando, non cambia niente. Sai cosa voglio dire ai ragazzi? Quel tempo che perdi per odiare, usalo per risolvere te stesso.
Solo così riuscirai ad affrontare i problemi della vita nella maniera più giusta».
Oramai è sera, Islam deve prendere il bus che lo riporterà nel paese dove vive e salutarlo non è facile, perché le storie di questi ragazzi ti si appiccicano addosso. Restiamo d’accordo che ci risentiremo, sicuramente continuerò a chiedere di lui perché è impossibile non fare il tifo per il suo futuro. Ho anche un’altra certezza, le sue parole e la sua storia saranno di grande aiuto a migliaia di ragazzi, perché è così
che funziona #cuoriconnessi, condividendo esperienze che lasciano un segno.
Mentre ci avviamo verso un ristorante incastonato tra il mare e gli scogli di Scilla, Maria Laura mi spiega nel dettaglio la vicenda di Islam. «All’inizio è stato fondamentale comprendere perché avesse agito in maniera così lucida e spietata nei confronti di quei ragazzi. Loro lo avevano isolato e lui era riuscito a ripagarli con la stessa moneta. Ma ora giorno dopo giorno la sua rabbia sta lasciando spazio alla riflessione. L’obiettivo è che Islam, visto il suo enorme talento nell’utilizzo della tecnologia, possa farne uno strumento di lavoro».
Nel pomeriggio anche Mimma mi aveva detto qualcosa di simile, spiegandomi che la storia di quel ragazzo era complessa: «Con Islam» queste le parole di Mimma «ci siamo mossi come gli archeologi, abbiamo dovuto scavare nel profondo. Aveva subito vessazioni di ogni genere, era esasperato. La “messa alla prova” è stata fondamentale. Islam ha compreso che tra le tante soluzioni che avrebbe potuto
adottare per venire a capo dei suoi problemi, aveva fatto la peggiore delle scelte, sposando il mondo dell’illegalità».
Così si chiude questa giornata ricca di esperienze. La mattina successiva passo negli uffici del COSC (Centro Operativo per la Sicurezza Cibernetica) e assieme a Maria Laura Creazzo ci spostiamo in quel famoso tratto di lungomare chiuso al traffico automobilistico perché ancora incompleto. Parcheggiamo, attraversiamo un sottopasso che purtroppo è stato trasformato in una specie di discarica e poi facciamo il nostro ingresso in un altro mondo. C’è silenzio, i rumori della città qui non arrivano, quasi che il traffico, le urla e i clacson avessero deciso di rispettare lo sciabordio delle onde.
Mentre aspettiamo Andrea, Maria Laura mi racconta di quanto possa arricchire, sia sotto il profilo umano che professionale, l’esperienza della “messa alla prova”. Comprendo che non deve essere semplice riuscire a interpretare due ruoli solo in apparenza distanti tra loro. Da una parte c’è il commissario capo in uniforme che svolge le indagini grazie al lavoro di una squadra efficiente e preparata, e dall’altra c’è il commissario capo che porge una mano a chi ha sbagliato e tenta di guadagnarsi la sua fiducia per fargli comprendere gli errori commessi. Andrea arriva puntualissimo. Rimango un attimo in disparte in modo da poter osservare meglio il rapporto tra lui e Maria Laura. Non saprei definirlo. Una sorella maggiore? Un’amica più grande di cui ci si può fidare? Non lo so. Resta il fatto che ci sono sentimenti che si percepiscono ma non si riescono a descrivere. Potrei parlare di affetto, di stima, di fiducia reciproca, ma forse sono tutte queste cose insieme che rendono speciale ciò che sto vedendo. Maria Laura non perde occasione per prenderlo in giro, e lui puntualmente replica che non ama dare confidenza a chi indossa un’uniforme. Sembra una commedia allegra che ruota attorno al gioco della parti: il buono e il cattivo, la legge e il fuorilegge. Non occorre essere psicoterapeuti per intravedere in questi scambi il più stupefacente dei sentimenti di cui disponiamo: l’amore. Parola scomoda e spesso malamente utilizzata. Parola che viene pronunciata con sempre più fatica, quasi con imbarazzo, in quanto ritenuta troppo
astratta e poco adatta a questo mondo che si muove tra intelligenze artificiali e tecnologie utilizzate male.
Ma io nel mezzo di quel lungomare deserto intravedo e respiro proprio questo, un sentimento d’amore. Amore per il prossimo, per il proprio lavoro, per la legalità e in fin dei conti per la vita.
Tutto sommato mi verrebbe da aggiungere che la stessa “messa alla prova” altro non è che una complicata, bene detta e a volte maledetta esperienza che ruota attorno alla potenza dell’amore.
Con Andrea e Maria Laura ci spostiamo in quel famoso giardino con vista sulla Sicilia. Il panorama, nonostante i troppi rifiuti disseminati un po’ ovunque, è davvero mozzafiato.
Sempre rimanendo di spalle, Andrea ci racconta di quanto sia stato stupido condividere online le foto di quella ragazza e di come sia difficile, mentre si vivono certe esperienze, comprenderne la gravità. «Online sembra che non accada nulla, è tutto ovattato e distante» racconta Andrea. «Poi quando ti ritrovi delle uniformi sotto casa improvvisamente ti crolla addosso il mondo. Io in quel momento più che impaurito mi sono sentito stupido. Molto stupido. Solo col tempo, grazie a persone come Maria Laura, Mimma e il procuratore Di Palma, riesci a mettere a fuoco lo sbaglio. Allora ti senti piccolo. Solo in quel momento percepisci l’errore commesso, tocchi con mano il dolore provocato alla vittima, alla sua e alla tua famiglia, e ovviamente anche a te stesso».
Oggi Andrea indossa una felpa nera e noi lo riprendiamo di spalle esattamente come avevamo fatto ieri. Di fronte a lui, quasi a perdita d’occhio, c’è il mare, e poi ancora più lontano svetta l’Etna. Non ci avevo pensato, ma questo sguardo verso un orizzonte così bello e colorato rappresenta la perfetta metafora della speranza. Della possibilità che tutti abbiamo di alzare gli occhi da terra e guardare lontano.
Questa potrebbe essere l’immagine finale del documentario.
Forse. Vedremo più avanti. Terminiamo l’intervista e smontiamo tutto perché io ho anche un aereo da prendere. Tempo di saluti finali. Ovviamente si tratta di un arrivederci, perché sicuramente ci saranno altre cose da condividere collegate a questa esperienza, dalle presentazioni del libro a quelle del documentario.
Aeroporto di Reggio Calabria. Mentre noto con enorme sorpresa che una volta tanto il volo è puntuale, inevita bilmente ripenso a queste giornate e a come tutto sia nato da uno scambio di battute avvenuto su un palcoscenico.
Potenza delle relazioni sane, quelle che uniscono e aiutano a condividere esperienze. È così che cominciano le cose, da un sogno condiviso. Anche online dovremmo imparare a costruire rapporti veri, la tecnologia è a nostra disposizione e a noi spetta il compito di usarla nella maniera più intelligente.
Ho fatto il check in online e quindi mi dirigo subito al gate. L’esperienza vissuta a Reggio Calabria segna e insegna. Cos’ho imparato? Semplice. Le cose possono cambiare per tutti, nonostante gli errori, le ricadute, le perplessità e i ripensamenti. Basta non mollare e tenere la rotta, basta fidarsi delle persone giuste e lasciarsi guidare.