9 aprile 2020, ore 18:35
Buonasera Luca, non ci conosciamo ovviamente. O per lo meno io conosco lei, perché assieme a mia figlia Camilla abbiamo letto il libro “#cuoriconnessi”. Sono la mamma di Camilla, 15 anni, quasi 16, ma come ha scritto lei stessa, ferma. Grazie al consiglio della responsabile del Dipartimento Storia di Camilla 13 Anticrimine della Questura di Udine a cui ci siamo rivolti e che ci ha dato modo di contattarla, Camilla è riuscita a scrivere il suo racconto. Vorremmo farglielo avere perché racchiude la sua storia, la sua sofferenza, emozioni, pensieri. E con lei, noi. Siamo tutti lì, in quel racconto: Camilla, sua sorella Alice, il papà Massimiliano ed io. E lì sono racchiuse anche tutte le volte in cui siamo andati in crisi, come genitori, perché quando sono nate le nostre figlie abbiamo promesso loro di amarle e proteggerle sempre. E abbiamo insegnato loro che non esiste altro modo di vivere se non con onestà, rispetto, cura degli altri e del mondo. Ma soprattutto abbiamo insegnato loro che l’amore vince sempre. Niente di più sbagliato. Questo racconto di Camilla fa capire che niente è andato così. Si, siamo persi anche noi. Unico punto saldo in tutta questa ingiustizia è che noi quattro siamo una squadra. E non ci lasciamo. Insieme ce la faremo.
Barbara
Siamo nel cuore del lockdown. Leggo un paio di volte consecutive questa lettera che mi è arrivata attraverso Messenger. Rileggere aiuta a comprendere meglio il senso del tutto perché dietro ogni virgola si nasconde una microverità, una sfumatura o una particella di dolore.
Le parole pesano, creano legami, hanno radici, muovono energia, rappresentano il nostro inestimabile patrimonio che spesso non sappiamo gestire.
Questa mamma che non conosco è arrivata a me grazie a quel libro che era stato distribuito in tutta Italia gratuitamente agli inizi del 2020. Se come titolo, per il progetto di prevenzione e per il libro, ho pensato al concetto di “#cuoriconnessi” è perché ho sempre creduto che esista veramente un filo tra chi scrive e chi legge. Le parole pesano, creano legami, hanno radici, muovono energia, rappresentano il nostro inestimabile patrimonio che spesso non sappiamo gestire. Torno con la mente a quel lungo messaggio, istinto ed esperienza mi dicono che sono di fronte a gente perbene. Gente perbene. Non vi è nulla di retorico in questo concetto e neppure niente di scontato. La gente perbene è quella che rispetta le regole e si impegna per costruire cose giuste evitando di urlare. La gente perbene ama la semplicità e cammina a testa alta perché non ha nulla da temere. Abbiamo tutti un disperato bisogno di gente perbene.
Lockdown vuol dire ridisegnare la concezione del tempo e dello spazio, non esistono più i sabati e le domeniche ma giornate che si susseguono nascoste una dentro l’altra come delle matrioske. I ragazzi sono sprofondati nella didattica a distanza, si sono visti sfilare di tasca la libertà e quando sei adolescente nulla può essere più devastante.
Il 23 aprile finalmente contatto Camilla attraverso WhatsApp: «Ciao Camilla, sono Luca Pagliari, oggi pomeriggio possiamo sentirci?» Infatti ci sentiamo e lei mi racconta tutto. Si muove leggera Camilla, occhi azzurri e cuore di cristallo, usa parole giuste e rappresenta l’essenza di quella famiglia perbene. Anima delicata e ferita, figlia di un mondo che raramente rispetta chi interpreta la vita come una danza in punta di piedi. Camilla dallo sguardo pulito e con la voglia di capire i troppi perché a cui nessuno potrà mai dare risposta. La sua delicatezza è un fiore che nessuno ha il diritto di calpestare. È lunga e complessa la sua storia e in attesa di imparare a muovermi all’interno di questo labirinto, le chiedo di inoltrarmi il racconto di cui mi aveva parlato sua mamma. Mezzora dopo vedo arrivare la sua e-mail.
Di notte le sentivo quando tutto era silenzio, le loro parole. Mi ronzavano in testa, rimbombavano, martellavano. E io mi aggrappavo alle lenzuola, al cuscino per non venirne trascinata giù come dentro un buco nero. Di giorno invece mi ritrovavo sempre con il telefono in mano per paura che arrivassero altri messaggi. Era diventata un’ossessione. Avevo bisogno di pensare due volte prima di dire il mio nome, perché non mi sentivo più Camilla. Io ero quel nome che mi avevano dato. Ogni volta che mi arrivava un messaggio da parte loro sentivo che un pezzo di me si rompeva. Pezzo dopo pezzo mi stavo sgretolando. Mi sentivo un muro vecchio e abbandonato. Un muro di quelli sporchi con i graffiti sopra, perché tanto non importa a nessuno se quel muro si sporca. Tanto è brutto e inutile.
Aveva proprio ragione il dottore che mi ha seguita durante il ricovero. Avrei proprio dovuto fare come diceva lui: «Ma chi vi caga!» Con il suo accento triestino e i capelli folti, riccioluti e tutti scompigliati era molto buffo ma aveva detto una cosa molto seria e vera. Purtroppo non sono mai riuscita a pensare, rispondere e vivere così, anzi, mi sentivo un pezzo di ceramica: fragile e vulnerabile. Stavo cadendo e se mi fossi schiantata mi sarei rotta in mille pezzi. Infatti, mi hanno ricoverata.
Dal momento che ho raccontato alla mia famiglia ciò che mi stava accadendo, non mi sono sentita più sola. Abbiamo iniziato a combattere assieme.
La mia storia non è ancora finita, chissà se e quando potrò finalmente dire di esserne uscita. Ho voluto scriverla ugualmente però, perché nonostante tutto il percorso che ancora dovrò fare so di aver già imparato alcune cose che sono sicura possano essere di aiuto a chi adesso ci sta entrando e si sente perso. Inoltre, sono sempre stata zitta, ho sempre taciuto. Ma adesso ho bisogno di dirlo a qualcuno, voglio urlarlo che sono arrabbiata con chi si sta divertendo a prendermi in giro, ma anche un po’ con me stessa perché ho sempre pensato di non aver alcun diritto a lamentarmi, perché ho cercato di resistere; perché c’è sempre qualcosa di peggio. E invece se ripenso a tutto ciò che mi hanno detto e fatto capisco di aver sbagliato a non agire. Perciò voglio dire questo: non bisogna tenersi dentro la sofferenza, ma cercare di parlarne con qualcuno. Questa è una delle cose più importanti che ho imparato. È necessario per sopravvivere. Dal momento che ho raccontato alla mia famiglia ciò che mi stava accadendo, non mi sono sentita più sola. Abbiamo iniziato a combattere assieme.
Altra cosa che ho imparato e ho capito essere fondamentale è concentrarsi su ciò che piace e fa stare bene: chiudersi nei pensieri e soprattutto nelle relazioni non può far altro che male. Quando si sta male non si ha voglia di parlare e vedere nessuno, ma sono proprio gli altri che ti possono rimandare immagini di te diverse da quelle negative che le tue compagne ti hanno dato. Quindi non bisogna chiudersi, anche se non è facile. A me è successo con il teatro che è la mia più grande passione. Frequentare le lezioni, scegliere il nuovo copione, confrontarmi con l’insegnante e i miei compagni mi ha aiutata a distrarmi dal buio e a farmi ritrovare il sorriso e rivedere finalmente alcuni colori. Non riesco ancora a vederli tutti, ci vorrà tempo e qualcuno mi dovrà aiutare. Sono sicura però che anche io, un giorno, riuscirò a dire: «Ma chi vi caga!»
Leggo quelle parole che hanno un sapore amaro. L’oscurità è un mantello nero che avvolge, stravolge e trascina distante. Non è stato semplice comprendere a fondo la storia di Camilla e ricostruirla come un fragile castello di carta. Giorno dopo giorno lei e sua mamma mi hanno raccontato tutto senza mai smettere di regalarmi la loro gratitudine. Hanno una dimestichezza antica con la parola “grazie” e dire che sin dall’inizio ho cercato di spiegare a entrambe che il vero senso di gratitudine lo stavo provando io nei loro confronti; lo proviamo noi che costruiamo campagne di prevenzione appese ai forse e alla speranza che tutto questo lavoro possa servire a qualcosa.
Camilla e la sua famiglia sono la risposta a tanti dubbi. L’inizio dell’incubo. Spesso la cattiveria riesce a infilarsi nelle pieghe della nostra esistenza sfruttando spazi minuscoli. La cattiveria non ha vertebre, riesce a strisciare sotto qualsiasi fessura e a colpire all’improvviso, specialmente quando hai le difese abbassate e pensi che la tempesta sia lontana.
La cattiveria ha una vista acuta e non lascia nulla al caso.
Camilla inizia a frequentare le scuole superiori, è felice perché sta cominciando qualcosa di nuovo, è preparata e studiare le piace. C’è un problema fisico da risolvere ed è legato alla sua schiena; l’ortopedico le prescrive l’uso intensivo di un busto che dovrà indossare anche a scuola. Occorrono pochi giorni per avvelenarle il sorriso, è sufficiente iniziare a chiamarla «gobba». Online o offline nelle chat e durante l’intervallo, parole scritte o bisbigliate, Camilla è la gobba della classe. E a nulla serve cercare di nascondere quel busto sotto strati di maglioni, la cattiveria ha una vista acuta e non lascia nulla al caso.
Barbara la invita a non mollare ma la situazione è pesante; allora Camilla inizia a indossare il busto solamente il pomeriggio appena rientra da scuola, ma bullismo e cyberbullismo una volta attivati sanno alimentarsi dal nulla. Ci sono i calci alla sua sedia, le prese in giro neppure troppo velate, qualcuno inizia a chiamarla «Camilla gay capo degli ebrei». Frasi senza senso sparate per ferire e mortificare. Non era questo l’inizio delle superiori che aveva immaginato Camilla e quella sua pulizia morale la rende ancora più esposta ad ogni forma di vessazione.
Anno complicato il 2018, perché a novembre Camilla viene operata al cuore a Milano. L’intervento è risolutivo, ma non riceve neppure un messaggio di incoraggiamento dai compagni di scuola e poi ci si mette anche la mononucleosi a rovinarle l’esistenza. Rientra in classe quasi a ridosso della primavera, c’è una calma apparente e comunque le ferite sono ancora aperte. Non poteva immaginare Camilla che la cattiveria a volte gioca a nascondino, finge di dormire per tornare a colpire nella maniera più vigliacca; del resto cattiveria e vigliaccheria sono da sempre buone amiche ed è così che con l’apertura del nuovo anno scolastico, come nel peggiore degli incubi, le vessazioni tornano a materializzarsi in maniera prepotente e invasiva.
Gli episodi di cyberbullismo che colpiscono Camilla non sono mai eclatanti, assomigliano a una pioggerella insistente d’autunno. Ogni cosa è calcolata, ogni offesa è ponderata, tutto si gioca sul filo della metafora e dei nomignoli perfidi che le hanno tatuato sulla pelle. Chi è a capo di questa tortura mirata? Tutti e nessuno? Certo che esiste una mente ma rimane debitamente al coperto. La snitch, ovverosia la spia schifosa che racconta tutto alla mamma deve soffrire e deve bruciare, ma a fuoco lento. La snitch deve impazzire e il progetto partorito per massacrarla è a lunga scadenza, come il latte che spesso beviamo a colazione. Quasi nessuno le rivolge la parola e lei cessa di essere Camilla. Ora è per tutti la snitch.
La sofferenza non è riservata solo a chi finisce sulle prime pagine dei giornali, siamo tutti più fragili di quanto possa sembrare. Una parola di troppo, un sorriso negato, un abbraccio non corrisposto, una risatina alle nostre spalle, una mezza frase scritta in chat, un emoticon cattivo. Sono tanti i piccoli tasselli che vanno a comporre un mosaico di dolore vero, quello che se prolungato nel tempo penetra fino alle ossa e ti fa sprofondare dentro una stanchezza mortale, proprio come nelle favole, quando la principessa rimane vittima di un perfido incantesimo.
Sentirsi colpevoli quando si è innocenti. Sottostare a tutto perché questa è la vita.
Questo accade a Camilla e il perfido incantesimo ogni giorno le succhia un frammento di voglia di vivere. La sua mente perde colpi, comincia a dubitare di sé stessa, lo specchio le regala menzogne perché alla fine non è poi così difficile identificarsi in quegli attacchi deformi. “E se quella sbagliata fossi io? Forse esagero, forse sono vittima di paranoie, forse è colpa della mia eccessiva sensibilità”. Camilla inizia a scivolare dentro questi pensieri che hanno un potere maligno e corrosivo. Sentirsi colpevoli quando si è innocenti. Sottostare a tutto perché questa è la vita. Chi si muove nell’ombra ha ben chiaro il disegno ed è perfettamente consapevole di dove stia spingendo Camilla, esattamente come agisce il branco di lupi quando riesce ad isolare la preda.
Ed è così che il picco massimo della cattiveria viene raggiunto in un messaggio audio divulgato addirittura nella chat della classe in cui le viene espressamente indicata la miglior soluzione per togliersi la vita. Ci sono la mamma e il papà che le stanno accanto ma a volte il dolore non è trasferibile, rimane un qualcosa di intimo e personale. Barbara ha provato a spiegare alle altre famiglie che il limite è stato superato, ma i risultati non sono stati incoraggianti. Prevale la tendenza a minimizzare, forse è Camilla quella troppo sensibile, senza tenere conto che accanirsi contro una persona molto sensibile costituisce un’aggravante e non certo un’attenuante.
Camilla non ha più risorse fisiche, fatica persino a raggiungere a piedi la fermata del bus mentre dei mal di testa lancinanti la costringono a distendersi sul letto nel buio della sua stanza. Barbara e Massimiliano sono molto preoccupati e anche la piccola Alice, la sorellina minore di Camilla che è perennemente allegra e saltellante, avverte la pesantezza della vicenda. Si spengono i sorrisi, si spengono le speranze: le analisi fatte all’Ospedale di Latisana confermano che Camilla è sana, forse però non è da un emocromo che è possibile scoprire le cause di quel malessere. I medici sono competenti e gentili, comprendono che si tratta di una patologia invisibile a qualsiasi microscopio e consigliano ulteriori accertamenti presso un altro ospedale.
A gennaio 2020, prima che scoppiasse la Storia di Camilla 19 pandemia, Camilla viene ricoverata al “Burlo” di Trieste dove rimane per alcuni giorni; sul comodino tiene “#cuoriconnessi” perché l’aiuta a sentirsi meno sola. La sottopongono a esami ancora più approfonditi ma l’esito è sempre negativo. Un medico ascolta attentamente Camilla e comprende che il problema di questa ragazza dagli occhi azzurri si chiama “male di vivere” e la sola medicina capace di curare questa patologia si chiama “amore e fiducia nell’umanità”. La famiglia non intravede una via d’uscita. Forse bisognerebbe rivolgersi alla Polizia di Stato, in casa ne parlano ma se la situazione dovesse peggiorare? Come ci accoglieranno in questura con tutte le cose che hanno già da sbrigare?
In questura non trovano gente in divisa,ma padri e madri, persone che quotidianamente lottano contro la durezza dell’ingiustizia.
Le domande sono tante e agiscono come un vento contrario, rallentano il cammino, lo rendono faticoso e tagliano il fiato, ma a volte bisogna trovare la forza di scegliere ed è così che un giorno Camilla, assieme ai suoi, varca la soglia della questura. Batte forte il cuore. Non hanno dimestichezza con questo genere di cose ma hanno un disperato bisogno di scorgere una luce, perché il cyberbullismo è una fabbrica di solitudine che si moltiplica all’ennesima potenza. In questura non trovano gente in divisa, ma degli amici disposti ad ascoltarli e soprattutto a far comprendere loro che quella scelta è stata la più giusta.
Lì dentro lavorano uomini di legge ma anche padri e madri, persone che quotidianamente lottano contro la durezza dell’ingiustizia. No, non sono pazzi e non hanno neppure esasperato la vicenda. La paura di Camilla e dei suoi era di trovarsi, seguendo un perverso gioco di specchi, sulla sedia del colpevole e non su quella della vittima. I manipolatori della realtà sono straordinari nel raccontare una storia diversa, piccole menzogne gettate qua e là che finiscono con l’intorbidire ciò che è evidente. Ci sono gli screenshot di decine e decine di messaggi che testimoniano lo stato reale dei fatti, la famiglia perbene non conosce la perfida arte della strumentalizzazione e neppure la vendetta, ma chiede solo pace e tranquillità.
Il commissario ascolta con attenzione, è una donna in gamba ed esperta, vaglia il materiale che le è stato consegnato ed è così che arriva ad una conclusione che ha il sapore di un consiglio amichevole. Sicuramente convocheranno i presunti bulli in questura, ma forse, più che intraprendere un’infinita battaglia legale, esiste la necessità di far sentire a Camilla la vicinanza di persone che certi fenomeni li combattono da sempre. Barbara e Camilla hanno letto “#cuoriconnessi”, le parlano di quel libro e il commissario suggerisce subito ad entrambe di mettersi in contatto con me: «Conosco Luca, si occupa di questi temi da anni e sicuramente potrà esservi vicino.»
Ed è così che mi sono trovato di fronte alla lettera di quella mamma disperata. Non sono uno psicoterapeuta e neppure un avvocato, per questo di fronte a queste situazioni provo sempre un senso di inadeguatezza, però “#cuoriconnessi” significa camminare insieme. Allora ho ascoltato in silenzio, ci siamo conosciuti ed ora eccomi qui a cercare le parole giuste per raccontare questa storia.
Adesso Camilla frequenta la terza liceo e ha scelto di non cambiare istituto; la dirigente ha compreso la portata della vicenda e le cose sono decisamente cambiate in meglio. Anche una ragazza e un ragazzo ascoltati in questura hanno chiesto scusa assieme alle rispettive famiglie. Insomma, in questo periodo sono accadute cose importanti. Abbiamo appena trascorso il nostro primo Natale blindati in casa a causa di un minuscolo virus e io debbo consegnare il libro per la stampa, parlo al telefono con Camilla verificando per l’ennesima volta che la ricostruzione della storia sia corretta.
Rifletto un attimo e le chiedo quale sia il senso di tutto ciò. Dove siamo arrivati ora?
Scrivere di Camilla non significa ricostruire cronologicamente una storia di cyberbullismo ma seguire il volo irregolare di una farfalla a cui hanno per lungo tempo tarpato le ali. Poi rifletto un attimo e le chiedo quale sia il senso di tutto ciò. Dove siamo arrivati ora? Non risponde, rimane in silenzio e poi aggiunge: «Questo Luca preferisco scriverlo e poi te lo invio con WhatsApp».