“Avrei voluto nascondermi dietro il mantello dell’invisibilità.”
I libri viaggiano, si spostano, migrano dove meglio credono e poi depositano le loro parole che, a volte, si trasformano in altro. Del resto, quando apri un libro sembra che abbia le ali e, in fin dei conti, è un po’ la verità. La storia di Marika l’ho incontrata così, o meglio, è lei che mi è venuta incontro planando sulla mia vita con la leggerezza di una piuma. Tutto ciò, grazie a una professoressa che ha deciso di condividere con i suoi alunni le storie di “#cuoriconnessi”. Ed è bellissimo, quasi stupefacente, scoprire ciò che può nascere dalla semplice lettura di qualche pagina. Per questi motivi, la mattina del 27 settembre 2022, mi sono trovato fuori dall’Istituto Comprensivo “Igino Petrone” di Campobasso, aspettando che arrivasse Marika. Era proprio in quel luogo che il libro aveva deciso di trasportarmi. Procediamo con ordine, perché tutto nasce da una prima lettera che mi aveva inviato la professoressa Filomena Presutti.
«5 maggio 22 Gent.mo Luca Pagliari, sono Filomena Presutti, e insegno Italiano, Storia e Geografia presso la scuola secondaria di primo grado «Petrone» di Campobasso. Dall’anno scorso seguo con le classi terminali il progetto “#cuoriconnessi”, leggo e discuto con loro le storie del libro. Quest’anno, dopo una lettura «a tappe» con discussione guidata, ho proposto ai ragazzi di terza media di produrre testi riflessivo-argomentativi su tracce a scelta, sulla base di citazioni e storie di ”#cuoriconnessi”. Abbiamo riflettuto anche sul ruolo di giornalista come «raccoglitore di storie,» che abbiamo collegato al percorso di lettura di quotidiani in classe che svolgiamo. Diversi testi prodotti mi hanno colpito, ma in particolare quello di un’alunna, Marika, che ha scelto di lavorare sulla traccia-spunto tratta dalla storia di Giorgia Bellini, di «trasformare il veleno in medicina». Marika ha raccontato la sua vera storia, di ragazza con difficoltà nella lettura, ma con straordinarie capacità di ascolto e di riflessione, unite a una forte sensibilità e a un amore autentico per la scrittura. Le ho proposto di scriverLe per inviarLe la sua storia e lei l’ha fatto, con entusiasmo, slancio, felice. Con stima Filomena Presutti ».
Le parole della prof mi colpiscono, mi regalano qualche certezza in più sul fatto che il progetto “#cuoriconnessi” funzioni e tutto ciò è fondamentale per ritrovare sempre la giusta energia e andare avanti. Leggo poi la lettera di Marika. Finisco e la rileggo di nuovo e, poi, di nuovo ancora, perché le sue riflessioni arrivano lontano, sono qualcosa in più di una semplice lettera, vanno in profondità, mi trascinano al centro del suo mondo di cristallo, dove i colori della fragilità si mescolano a quelli del coraggio. Non conoscevo l’universo di Marika e a dire il vero, come ho scoperto in seguito, in pochi avevano avuto la possibilità di accedervi ed ora lei mi spalancava quella porta senza remore e paure. Ancora non potevo saperlo, ma in cuor mio avevo già deciso che Marika la sarei andata a conoscere. E non solo lei, ma tutte le persone che erano parte di questo straordinario universo. La lettera di Marika: «“Trasformare il veleno in medicina” …di fronte a una frase così forte e piena di vita, di volersi riprendere la propria vita per lasciarsi alle spalle tutto il dolore e la sofferenza provata, le parole sembrano svanire. È difficile pensare a questo spiraglio di luce quando ci si ritrova persi nel buio e questa luce, come direbbe Montale, sembra essere solo un ricordo che ci può far provare quel brivido di felicità anche solo per un istante. Ma davvero quel bagliore non è altro che un ricordo che sembra affievolire? No, la luce che sembra lontana in realtà è dentro di noi; beh, bisogna scavare e scavare dentro di noi, ma alla fine ci si accorge che ciò che si stava cercando era da sempre lì accanto a noi, e allora finalmente si avrà trovato un senso alla sofferenza e si potrà utilizzarla come strumento di crescita. Io ci ho messo un po’ per capirlo. In prima elementare, a distanza di pochi mesi dall’inizio dell’anno scolastico, tutti i miei compagni di classe, come diceva la maestra di italiano, avevano spiccato il volo. Riuscivano a leggere, dividendo in sillabe, qualsiasi cosa gli venisse suggerita. Io no. Io ero ancora appollaiata sul ramo a capire perché ogni volta che aprivo le ali come gli altri mi portassero a cadere. Io non riuscivo a capire perché quando leggevo singolarmente, o come diceva la maestra “leggere nella testa” mi riusciva bene, mentre quando la maestra mi chiedeva di leggere ad alta voce, le sillabe si confondevano tra loro. A me non creava disagio il fatto che leggessi male, quanto le risate soffocate che si alzavano ogni volta che mi venisse chiesto di leggere. Era così brutto che ogni volta, al termine della lezione, io non avevo più il coraggio di guardare negli occhi nessuno. Era come se nella mia testa rimanessero ancora quelle risatine di scherno, e avrei voluto scusarmi con i miei compagni di non essere come loro. Così, in pochissimo tempo, mi chiusi sempre di più; questo era il mio modo per evitare di infastidirli, i miei compagni. Per loro, non ero altro che un fantasma, una figura che, sì, c’è, ma che nessuno vede e sente mai. Riuscivo a farmi notare da loro solo quando la maestra ridava le verifiche di italiano e si congratulava con me per aver scritto un bel testo. Un giorno, quasi alla fine del quinto anno, quando ormai ero abituata alle loro risatine, quando leggevo o al loro travolgermi quando passavo, senza chiedere scusa, perché ai loro occhi non esistevo …un giorno, arrivata in classe, non trovai più il mio banco. Allora, chiesi immediatamente alla collaboratrice dove fosse finito, e lei mi rispose che in quella classe avevano tolto un banco perché di troppo. Ricordo ancora quell’orribile sensazione nella pancia, e gli occhi scoppiarmi di lacrime. Lei si accorse che qualcosa non andava, allora si giustificò dicendo che erano stati i miei compagni di classe a dirle che era di troppo quel banco, e immediatamente aggiunse che me lo avrebbe rimesso al suo posto. Il mio banco tornò al suo posto, ma ormai ero io a non sentirmi più al mio posto in quella classe. I miei genitori assieme a me decisero di farmi cambiare scuola alle medie. A ripensarci, oggi, vorrei quasi ringraziare quelli che erano i miei compagni di classe; grazie a loro ho capito che quando si ha una debolezza bisogna mettercela tutta per affrontarla, senza mai piangersi addosso, perché ci saranno sempre le persone disposte a ridere per un tuo errore, basta soltanto farsi forza e affrontarlo. Grazie a loro, inoltre, ho capito qual è il mio vero punto di forza. Io riuscivo e riesco a sentirmi forte come loro nella lettura, quando scrivo. Per me la scrittura è la più bella forma espressiva, permette di creare con le parole un universo in grado di aiutare chi si trova in una situazione di difficoltà, come abbiamo vissuto anche noi. Credo di poter restare qui ore e ore ad elencare quanto sia bello e importante scrivere, ma mi limiterò nel dire che sono finalmente riuscita a terminare il mio romanzo fantasy. Quindi posso concludere affermando che trasformare il veleno in medicina è difficile e richiede tempo e audacia, ma non è impossibile.» Quando arrivo all’Istituto Petrone sono le otto di mattina. Aria frizzante, perché Campobasso si trova a 700 metri nel cuore del Molise. Mi attende il professor Giuseppe Natilli, che di quella scuola è il dirigente. All’interno del suo ufficio, mi spiega che quella ragazza minuta dalla voce sottile possiede un qualcosa in più. Forse è stato proprio quel “di più” a renderla un corpo estraneo nel corso della scuola primaria. Mi racconta quasi commosso che l’intera commissione d’esame, nella precedente primavera, era rimasta sconvolta dalla profondità di Marika e dalla ricercatezza dei termini che quella ragazza riusciva a utilizzare con una naturalezza straordinaria. Lo saluto e nel frattempo la mia curiosità continua a crescere. Marika frequenta il primo anno di Liceo e per l’occasione tornerà nella sua vecchia scuola media accompagnata dalla sua nuova classe e persino dal dirigente. Tutto questo mi rende ancora più consapevole di quanto il progetto “#cuoriconnessi” possa realmente incidere sulle vite di tanti adolescenti. Finalmente, incontro anche Filomena Presutti, la ex professoressa di Marika che ha contribuito a scrivere questa bellissima favola tratta dalla realtà. Filomena, passeggiando nel bellissimo teatro della scuola, mi racconta quanto sia utile portare ai ragazzi delle storie e quanto sia efficace la chiave comunicativa adottata da “#cuoriconnessi”. È gentile ed elegante, facile comprendere che appartiene a quella categoria di docenti nati per insegnare. Persone che vivono il loro lavoro come una missione e sono proprio questi i professori che poi fanno la differenza. Quelli che anche a distanza di decenni continuano a rimanerci nel cuore. Qualcuno ci viene a chiamare, finalmente Marika è arrivata assieme alla sua classe! La incontro nel corridoio, lei sorride e bastano pochi scambi di parole per farle perdere quel velo di timidezza iniziale. Le sembra quasi impossibile che tutto ciò stia accadendo! Continua a ringraziarmi, ma con fatica riesco a spiegarle che sono io, a nome di tutte le persone che lavorano al progetto “#cuoriconnessi”, che mi sento in dovere di ringraziarla. Lei rappresenta la prova concreta che a volte la semplice pagina di un libro può cambiare in meglio le nostre vite e poi aggiungo: «Ora Marika sarai tu a scivolare tra le righe di quel libro che tenevi tra le mani, insomma, più “#cuoriconnessi” di così non si può!» Mentre le parlo, leggo nei suoi occhi una luce che probabilmente assomiglia alla gioia, quella vera e profonda che non sarà possibile dimenticare. Parliamo ancora un po’ e, poi, ci infiliamo dentro un’aula deserta. È arrivato il momento di conoscere nel dettaglio la sua storia. Ci separa un banco e finalmente, uno di fronte all’altro con un microfono nel mezzo, possiamo iniziare ad avventurarci in quel suo passato pieno di ombre. «Sai Luca, se penso al periodo delle elementari cerco o forse fingo di non ricordare. Troppo dolore. Troppe lacrime. Vivevo una solitudine che non riesco neppure oggi a spiegarmi. Le maestre non mi capivano. Preferivo rimanere chiusa nel mio universo per paura di non essere compresa, per fortuna c’era, però, la mia famiglia a sostenermi.» Cerco di comprendere da Marika quali fossero i problemi: perché tanto dolore? «Ad esempio, quando mi veniva chiesto di leggere, la mia lettura era accompagnata da un sottofondo di risatine e di prese in giro. Loro erano quelli che sapevano leggere in maniera scorrevole, io no. Loro erano quelli che quando in palestra dovevano fare le squadre per giocare si dimenticavano della mia esistenza. Loro erano quelli che si accorgevano di me solo quando facevo qualcosa di sbagliato o di ridicolo. Per questo sognavo di essere invisibile, di scomparire, di rimanere ai margini di quell’universo che aveva deciso di non accettarmi.» Le considerazioni di Marika sono nitide, prive di ombre e di autocommiserazione. Mi colpisce questo suo continuo rimarcare la differenza tra «io» e «loro». Ho la sensazione che Marika stia parlando di due universi completamente distanti, eppure, seduti nelle piccole sedie di legno della stessa classe. «Non era una mia sensazione soggettiva, Luca, tutto era terribilmente reale. Io ero quella dislessica, quella sbagliata, quella che non meritava di appartenere al gruppo classe. Così avevano deciso, e c’era poco da fare.» Marika continua a raccontare ed io percepisco perfettamente quanto un insieme di piccole cattiverie apparentemente non degne di nota, possano invece nella realtà essere causa di un dolore profondo e insopportabile, specialmente se questo atteggiamento si protrae nel tempo. Quanto dolore, piccola Marika. Quanta cattiveria ti è caduta addosso e tu, per fartela scivolare, sognavi di indossare il mantello dell’invisibilità. Il prezzo da pagare per esserci era quello di renderti invisibile. Dovevi e volevi spingerti oltre le risatine, gli sguardi compassionevoli, le battute sussurrate. E tutto ciò è durato anni. «Era un quadro di sofferenza infinito», mi dice Marika, e ancora una volta il suo linguaggio mi lascia stupito. Rifletto su quanti siano i quattordicenni in grado di pronunciare la frase «era un quadro di sofferenza infinito», probabilmente pochi, molto pochi e Marika appartiene a questa cerchia ristretta. «Oggi, Luca, ho compreso pienamente che la dislessia è una caratteristica e non un difetto. Quella volta non lo sapevo e siccome per tutti era qualcosa di terribilmente negativo, anche io mi ero convinta di questo. La avvertivo come un peso quasi insostenibile. Quando le maestre volevano che utilizzassi la calcolatrice per fare matematica, io mi rifiutavo perché agli occhi di tutti ero una disagiata, una non all’altezza. Questo provoca un dolore insopportabile, finisci all’interno di un tunnel che non prevede uscite.» Torno a chiedere a Marika cosa significhi sentirsi invisibile e lei mi risponde di getto: «Magari mi ritrovavo tra due compagni che stavano parlando ed ero conscia di non rientrare minimamente nel loro campo visivo, ero trasparente e questa era la regola, non l’eccezione. Tutto reale e vero. Non erano mie suggestioni.» Bello sapere che alle scuole secondarie di primo grado Marika era invece riuscita a vivere in pieno il proprio gruppo classe, questo grazie a docenti molto presenti e concentrati non solo sul programma scolastico da rispettare, ma anche sulle dinamiche relazionali interne alla classe. «Oltre alla didattica, – aggiunge Marika – c’era l’inclusione e questo è fondamentale. Quello che ci dicevano i professori era che il programma scolastico sarebbe avanzato assieme all’intero gruppo evitando spaccature e divisioni in classe.» Improvvisamente cambio tema e chiedo a Marika di provare a descrivermi il dolore. Per la prima volta, scende tra noi un silenzio pesante, quasi impenetrabile. Poi finalmente, ma con un tono di voce diverso, Marika cerca di spiegarsi: «Credo di non riuscire molto bene a spiegarlo, perché in realtà ancora non sono riuscita ad eliminarlo dalla mia vita. Mi trovo a disagio perché io quelle risatine le sento ancora.» Capisco che non è il caso di spingersi oltre, mi fermo, torno all’avventura di “#cuoriconnessi” e le domando se si sente pronta, una volta che uscirà il libro, a dover magari dispensare consigli a chi sta vivendo momenti difficili come quelli che lei ha vissuto. Improvvisamente, il volto di Marika torna ad illuminarsi, siamo tornati a muoverci su un terreno amico. «Sì, Luca! Mi sento pronta. Aiutare un altro essere umano è la cosa più bella del mondo. Quello che io desidero è divulgare l’importanza del sorriso e dell’empatia. Non è difficile farlo, bisogna provarci ed io lo farò.» Quando saluto Marika e la sua bellissima famiglia è pomeriggio inoltrato. Mi ritrovo in auto da solo in direzione di casa e ripenso a questa giornata speciale, alle cose che mi ha insegnato Marika, alla sua forza e alla sua resilienza. Penso all’importanza delle parole che pronunciamo, che scriviamo e che disseminiamo per il mondo attraverso una banale tastiera dello smartphone. Siamo tutti interconnessi, facile ferire ed essere feriti. Molto facile. Sono certo che Marika insegnerà a molti suoi coetanei tutto ciò. Ragazzi che insegnano cose belle ad altri ragazzi. In fin dei conti, tutto questo è “#cuoriconnessi”. Grazie, Marika, per avercelo ricordato.