“Vivo per essere migliore di chi ero ieri.”
Quasi per forza d’inerzia, lo vado a cercare su Instagram e sotto la sua foto trovo questo pensiero: «Non mi interessa essere migliore di qualcun altro, vivo per essere migliore di chi ero ieri.»
L’immagine del profilo lo ritrae piuttosto serio, indossa una T-shirt bianca, mentre con una mano sembra accarezzarsi i capelli. S’intravede l’avambraccio abbondantemente tatuato e gli occhiali da sole scuri sottraggono il suo sguardo al resto del mondo. Già, perché stare nascosto è stata per anni la sua specialità.
Leggo sempre dalla home del suo profilo: «Matteo Martellone. Personaggio Pubblico. Laureato in legge.» Lascio scorrere le immagini, tutte belle, profonde e studiate. Qualche sorriso appena accennato, gli occhiali quasi sempre indossati come uno scudo. “Scrollo” i tanti post accompagnati da frasi mai banali, e una recita: «Non amo fare numero. Preferisco essere la differenza.» Risale al 12 agosto 2020. Rifletto sul fatto che lui c’è riuscito alla grande, a non essere un numero, solo che a volte per fare la differenza ha dovuto calpestare schegge di parole più taglienti del vetro. È stato costretto a camminarci sopra facendo finta di niente, spinto dall’intima convinzione che chi cammina, prima o poi, da qualche parte arriva. E lui quel sentiero lo ha attraversato tutto; niente sconti, nessuna scorciatoia; unici fedeli compagni di viaggio: il dolore, la determinazione e, soprattutto, i suoi familiari. Loro sono la sua radice o anche qualcosa in più, forse rappresentano un’estensione della sua anima. «La vita e la bici – scrive Matteo in un altro post – hanno lo stesso principio: devi continuare a muoverti per stare in equilibrio.» E lui, ogni volta che è caduto, si è sempre rialzato tornando a mordere la salita, perché nei suoi primi venticinque anni, di discese ne ha viste ben poche. Matteo ha sempre pedalato controvento. Sempre, o meglio, tanto per essere precisi, da quel lontano 26 novembre del 2000. Aveva compiuto tre anni da appena quattro giorni, quando disse a Monica: «Mamma mi fa male la testa!» Nessuno poteva immaginare che da quel momento, nulla sarebbe più stato come prima. Torno a frugare tra i suoi post su Instagram e, sotto un suo primo piano in bianco e nero, sguardo sempre protetto da lenti scure, leggo: «L’inchiostro sa quante frasi nascondono i silenzi.» Ci siamo, ecco la parola chiave: «silenzi». Da quel 26 novembre del 2000, i rumori, le voci e i suoni hanno improvvisamente abbandonato Matteo, lasciandolo navigare nell’oceano dei silenzi. Si tratta di un oceano dove inizialmente non esiste un timone e neppure una rotta da seguire. È il nulla che prende il comando e decide per te. È l’inizio di un qualcosa che ha il sapore della fine, è l’inizio dell’assenza. Poi, arriva la sentenza pronunciata da un medico dell’ospedale Bambin Gesù di Roma ed è più dura della pietra: «Matteo è affetto da sordità profonda dovuta a una sospetta meningite.» «Che cosa significa?», chiede Monica con un filo di voce. E la risposta del dottore non può essere fraintesa: «Significa che se a suo figlio passa un aereo sopra la testa, lui non lo sente.» Siamo in caduta libera verso l’oscurità, perché non esiste un genitore preparato a tutto questo. Bisogna attingere a forze interiori che non si possiedono e, siccome non si possiedono, è necessario inventarsele. Paure e presagi avevano già trovato conferma il giorno in cui papà Marco, qualche tempo prima della diagnosi, fece cadere una pentola d’acciaio alle spalle di Matteo, ma lui non si scompose minimamente continuando a galleggiare senza meta nel mezzo di quell’oceano maledetto. Da allora, sono passati quasi ventitré anni. Quanta rabbia, quante battaglie, quante discriminazioni figlie del pregiudizio e quante cattiverie circolate online attraverso i social. Le parole velenose hanno il potere di infilarsi come serpi nei nostri smartphone, o nei tablet, senza far rumore. Lasciano segni profondi, non hanno nulla di innocuo e rappresentano la parte malsana e malata del web, quella che “#cuoriconnessi” combatte ormai da anni. Continuo a vagare sui social, rimanendo sulle tracce di questa famiglia che non si è mai disunita neppure nei momenti più bui, quando si è trovata ad attraversare in solitaria le tempeste scatenate dalla cattiveria e dal pregiudizio. Loro sono sempre rimasti a galla e così, finalmente, è arrivato il 21 luglio 2022: Università degli Studi di Teramo, Matteo sorride infilato dentro un elegante vestito blu con tanto di cravatta fantasia tendente al rosso, questa volta, gli occhiali scuri non servono; a spiegare tutto, c’è la corona di alloro che gli avvolge la testa. Con la mano destra, mostra all’obiettivo la sua laurea in Giurisprudenza appena conseguita, con la sinistra regge la sua elegante tesi rosso vermiglio rilegata in pelle con scritte dorate, dal titolo: Il phishing. Profili informatico-giuridici.All’aria calda di quella giornata, si mescola un sentimento superiore alla gioia. È qualcosa che viaggia persino oltre le lacrime degli amici, dei genitori e della sorella. È lo stupore di chi ha scalato la montagna più alta e ora, per un istante infinito, da lassù può osservare la bellezza del mondo. Matteo e la sua tesi di laurea sul phishing. Penso a quante volte in “#cuoriconnessi” abbiamo raccontato le storie di chi è rimasto vittima di phishing, e cioè di chi ha ingenuamente fornito informazioni personali e dati sensibili fidandosi di qualcuno che in realtà era un truffatore. Poi esiste il catfishing, in questo caso, si gioca di più sui sentimenti con il malintenzionato che, nascosto da una falsa identità, riesce, magari, a farsi inviare foto intime poi utilizzabili per ricattare la vittima. Insomma, il Dottor Matteo Martellone da Ortucchio, provincia de L’Aquila, ha scelto per la sua tesi di Laurea Magistrale una problematica attuale ed estremamente diffusa. Molti, in questi anni, hanno tentato di convincere quella famiglia che esistono sogni che non si possono sognare. In tanti, li scrutavano con un senso di pena e soprattutto di rabbia, in quanto quel ragazzo sordo si rifiutava di accettare i propri limiti. Nessuno aveva però fatto i conti con il 21 luglio 2022, nessuno aveva preso in ipotesi che la determinazione, il coraggio e l’amore di una famiglia possono farti volare fino alla cima. Scrive Matteo in un altro post legato alla laurea: «Un sentito grazie va a me stesso, per tutti i sacrifici svolti per arrivare a questo traguardo importante, ma anche a chi mi ha deriso e ostacolato, perché il denigrarmi mi ha dato la possibilità di trasformare la rabbia in coraggio, prima ai miei genitori e poi a me, e tutto ciò mi ha permesso di raggiungere obiettivi assolutamente eccellenti.» La notizia di questa avventura diventa virale: potere dei social. Sono in tanti a parlare di Matteo e, allora, decido che questa famiglia devo conoscerla. Tra l’altro, c’è un aspetto molto importante da sottolineare: per un sordo, così come per tante altre persone affette da altre forme di disabilità, la rete rappresenta una grande occasione di confronto. Il web azzera barriere; dobbiamo imparare ad assimilare anche questo concetto e ciò rappresenta un motivo in più per raggiungere Ortucchio, piccolo paese nel sud dell’Abruzzo, che pochi conoscono. Parlo al telefono con Monica, la mamma. Lei è quella che ha trainato il gruppo; in questi anni, ha studiato Giurisprudenza per difendere i diritti di suo figlio, Medicina per conoscere meglio quel male invisibile, Psicologia per aiutare Matteo a non sentirsi uno sconfitto, ma, soprattutto, Monica ha deciso che sarebbe stato l’amore con la sua inesauribile energia a spingerla verso orizzonti che nessuno era in grado di scorgere. Il 9 agosto, finalmente, raggiungo quel paese che conta meno di duemila abitanti. Il cielo è grigio, ma l’aria è sorprendentemente fresca, del resto siamo quasi a settecento metri di altezza. Non è difficile individuare la loro villetta, che si trova alle porte del paese, circondata dai campi della conca del Fucino, e pensare che fino alla seconda metà dell’Ottocento questo era, per estensione, il terzo lago d’Italia, poi, venne prosciugato e trasformato in terra da coltivare. Perlopiù, patate e carote. Parcheggio accanto alla casa ed è proprio Monica a venirmi incontro, minuta ed elegante. È sufficiente una stretta di mano per avvertire il flusso energetico che è in grado di emanare. Poi, conosco Marco, suo marito, anche lui accogliente come gran parte della gente che vive tra queste montagne popolate da branchi di lupi, caprioli e dai meravigliosi orsi marsicani, simbolo del Parco Nazionale d’Abruzzo. La famiglia Martellone vive qui da sempre. «Questa villa, pietra dopo pietra, l’ho costruita io», racconta Marco con una punta di orgoglio genuino. In questa perfetta divisione dei ruoli, lui è sempre stato quello che “galoppava” sbrigando pratiche, girando per uffici inutili e litigando con impiegati protetti dalla giungla inestricabile ed esasperante della burocrazia. Perché in Italia, le barriere mentali, spesso, sono più ingombranti di quelle architettoniche. Entro nel grande salone di casa. Nulla è fuori posto, c’è un ordine che contiene un qualcosa in più della semplice precisione. È l’ordine delle cose che regola le priorità della vita, quello che tutti dovremmo tentare di perseguire nel corso delle nostre esistenze. Dalla sua camera, spunta Desiree che frequenta il quarto anno del Liceo Scientifico di Avezzano e possiede un sorriso pulito come acqua di sorgente. Anche lei ha dovuto fare i conti con il bullismo e il cyberbullismo. Desiree ama la storia, legge Pirandello e conosce tutto di Ignazio Silone, nato a Pescina, due passi da Ortucchio, scrittore e intellettuale di livello mondiale scomparso nel 1978. È attratta dalla conoscenza e dal sapere, Desiree, quanto basta per essere stata considerata anomala da chi era schiavo del nulla. Era il tempo delle scuole medie, «Uso i social, – mi racconta – ma seguo solo le persone che hanno cose da dire. Pensa che su WhatsApp avevano creato un gruppo per sfottermi, ed io ne ho sofferto molto. Ero considerata una secchiona invisibile. Mi chiedevo perché lo facessero ma poi sono arrivata alla conclusione che la sola risposta si lega all’ignoranza. Tutto lì.» Desiree è l’artefice di tutto. Se sono arrivato fino a qui, è per merito di questa ragazza dai capelli castani e dalla voce morbida che il giorno della laurea di suo fratello si è vista attraversare la mente da un pensiero più potente di una scarica elettrica, quello di raccontare al mondo la storia di Matteo, che è poi anche quella di un’intera squadra chiamata famiglia. Ha agito d’istinto, senza starci troppo a pensare, e il mondo l’ha ascoltata con attenzione e stupore. Mai si sarebbe aspettata un clamore del genere; fortunatamente, il tam tam mediatico non funziona esclusivamente per le tragedie, ma anche per storie di riscatto come questa. Mentre la osservo, avvolta nel suo maglioncino rosa, penso a quanto abbiamo tutti un bisogno profondo di belle notizie, di storie che finiscono bene, di avventure dove alla fine la spunta il più debole che, arrampicandosi sulle proprie fragilità, riesce a conquistare la vetta. Fosse solo per questo, Desiree, dovremmo sempre ringraziarla. Finalmente arriva anche Matteo, capelli lunghi e una T-shirt nera. Sorride, ed è un sorriso pieno e privo di compromessi. La sua disabilità la dimentico subito, perché Matteo, grazie anche all’aiuto di un impianto cocleare, comprende perfettamente ogni mia frase. Matteo da bambino è stato sottoposto a due lunghissimi interventi chirurgici, ma senza una determinazione forte, basata su un estenuante processo di rieducazione ai suoni e alle parole, tutto ciò non sarebbe stato possibile. È così semplice dialogare che non devo neppure sforzarmi di parlare lentamente e anche le sue risposte sono sempre chiare. Tutto è apparentemente facile, ma il cammino verso questa normalità è iniziato nel lontano 2000. Ci prendiamo un caffè, tutti assieme, poi, io e Matteo scendiamo nella grande taverna dove c’è spazio persino per un biliardo. Ci accomodiamo attorno al lungo e massiccio tavolo di legno. Parla e sorride, Matteo. Racconta il suo passato senza titubanze, nessuna paura, nessuna vergogna e tutto questo è straordinario. Matteo, quello che fino a qualche anno prima si inventava di tutto pur di nascondere il suo problema, quello che non si sentiva mai al posto giusto, e ogni tanto scivolava nelle acque stagnanti della solitudine, oggi è altro. Non si tratta di un miracolo, troppo facile e riduttivo. È solo questione di coraggio, di tenacia e d’amore. «Sai, Luca, sono così contento che questa storia sia diventata pubblica. Mi hanno già scritto attraverso i social tanti ragazzi e sono sicuro che, grazie a “#cuoriconnessi”, tanti altri potranno contattarmi. Diventare un punto di riferimento, poter aiutare chi sta attraversando momenti di buio, mi regala tanta energia.» Non c’è neppure bisogno che io faccia troppe domande, perché Matteo è un ragazzo che ha voglia di parlare e di esserci, con orgoglio e senza zone d’ombra, perché non c’è più nulla da tenere nascosto. Scontato che voglia parlarmi dei social e del suo rapporto con la rete. «Uso spessissimo Instagram e Facebook. I social ci forniscono la grande opportunità di allargare le nostre conoscenze e dobbiamo essere consapevoli di questo e ringraziare ogni progresso tecnologico. Eppure, ancora in molti non lo hanno capito. Uno dei miei obiettivi, anche attraverso la rete, è di contribuire ad abbattere ogni forma di discriminazione, da qualsiasi parte essa provenga.» Matteo mi racconta che, pochi giorni prima, qualcuno su YouTube aveva creato un account a suo nome, ma che poi è stato bloccato. «Quel soggetto, probabilmente, non sapeva di commettere un reato, proprio questa inconsapevolezza diffusa mi ha portato a impostare la mia tesi di laurea sul phishing.» Gli chiedo qualcosa in più sulla sua tesi e, come immaginavo, lo trovo preparatissimo. «Il phishing, Luca, è un qualcosa di molto attuale. Di per sé è una norma che non può essere punita, ma inevitabilmente conduce a reati come la frode informatica, la truffa, l’accesso abusivo a un sistema informatico, la detenzione e la diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici e altro. Penso a tutti i ragazzi che quotidianamente fanno acquisti online e che, inevitabilmente, per pagare devono indicare credenziali bancarie o di carte di credito.» Ascolto con attenzione la sua lezione sul phishing e gli domando come possiamo difenderci da questa trappola velenosa e spesso ben mimetizzata. Matteo risponde senza la minima titubanza: «Occorre essere prudenti, Luca. Mai aprire le e-mail sospette o messaggi di provenienza dubbia. Tutti andiamo di corsa e, a volte, agiamo prima di pensare, quando invece è necessario riflettere. Se abbiamo una perplessità, anche minima, non rischiamo.» Chiedo a Matteo cosa è necessario fare se accidentalmente abbiamo aperto un’e-mail sospetta o cliccato su un link o un banner poco affidabile. «La prima cosa da fare, senza perdere tempo, è chiamare la propria banca, eventualmente, bloccare carte di credito e bancomat e contattare la Polizia Postale. Tutto questo, però, possiamo prevenirlo evitando di aprire messaggi poco affidabili. Attenzione, perché certi link pericolosi viaggiano anche attraverso i social o ad esempio Messenger. E comunque, in genere, le e-mail fasulle spesso non sono personalizzate, chiedono i nostri dati minacciando chissà quali conseguenze, spesso cercano di spaventarci scrivendo che se non riceveranno risposta il nostro account sarà sospeso. Poi, ricordiamoci sempre che nessuna banca chiederà mai dati riservati attraverso una semplice e-mail.» Dopo questa lezione utile, quanto inaspettata sul phishing, decido di tornare alla sua storia e scopro che bullismo e cyberbullismo lo hanno accompagnato per anni. Lo prendevano in giro per la sua parlata strana, lo emarginavano quando c’era da giocare a pallone; ogni occasione era utile per fargli portare la croce della disabilità, compresa la volta in cui lo scuolabus del Comune lo lasciò a piedi di fronte alla scuola. Lui, in quanto disabile, non poteva avere diritto a quel servizio, e questo nonostante la famiglia avesse regolarmente pagato la retta per il trasporto. Era il 3 ottobre del 2005, Matteo frequentava la terza elementare e, mentre i suoi compagni erano tutti a bordo, a lui venne vietato di salire. Fu il nonno che lo andò a prendere. Matteo piangeva sconsolato. Perché il mondo sapeva essere così crudele nei suoi confronti? Non ho risposte convincenti da dargli. Parliamo ancora un po’ e poi risaliamo al piano di sopra. «La solitudine – racconta Monica mentre pranziamo – è disperazione, è sentirsi diversa, scansata e isolata in quanto appartenente ad un’altra categoria di umani, quella di chi è nato sbagliato, di chi sta dalla parte del problema e non della soluzione. La cosa che più ci è venuta meno in tutti questi anni è l’empatia, la solidarietà, il sentirci supportati da un qualcosa che accomuna e non divide.» Parole che pesano e che restano sospese nell’aria per un tempo infinito e solo venendo a Ortucchio sono riuscito a comprendere fino in fondo il senso di questo percorso e di cosa rappresenti veramente il conseguimento di questa Laurea Magistrale. La paura del pregiudizio, fino a qualche tempo fa, accompagnava Matteo come un’ombra. La mamma non faceva altro che ripetergli che mascherare quel disagio avrebbe appesantito la sua vita. A volte, pur di non confessare il suo problema, Monica lo vedeva annuire senza convinzione, mentre gli altri parlavano di qualcosa che sfuggiva al suo udito. Lei sapeva benissimo che non era quello l’atteggiamento giusto da seguire, perché nella vita chi finge è sconfitto in partenza. Facile a dirsi, molto più complicato uscire allo scoperto, ma tutti dobbiamo comunque fare i conti con le nostre paure, quelle che oggi Matteo ha saputo sciogliere come neve al sole. «Oggi ho capito tutto – mi racconta Matteo – è meglio mostrarsi per quello che si è, piuttosto che nascondere le proprie caratteristiche. Anche attraverso i social ho avuto l’opportunità di farmi conoscere per quello che sono e tanti ragazzi che vivono le mie vecchie paranoie hanno trovato in me un po’ di conforto e di speranza.» Sembra impossibile che quel bambino di Ortucchio, che tutti giudicavano con superficialità, ignoranza e cattiveria un disabile completo, oggi mi stia seduto di fronte mostrando un equilibrio e una serenità invidiabili. E la gente? Cosa pensava? Purtroppo la maggior parte era unita da un pensiero comune. Sordo, cieco, down, autistico, non fa differenza. Sempre di diversi si tratta. Cosa volete che possa mai combinare nella vita quel bambino sordomuto che ha comportamenti perlomeno strani e non lega con nessuno? E poi quella madre, che si ostina a considerarlo uno come gli altri, quella donna cocciuta che con i suoi capricci pretende di modificare programmi scolastici, rallentando l’apprendimento di quelli normali, quelli che ci sentono, che ridono, scherzano e giocano a pallone, dovrebbe imparare a rassegnarsi senza stravolgere le vite degli altri. Per il sordo c’è l’insegnante di sostegno, è suo compito fare i conti con quel portatore di handicap disadattato; gli altri docenti hanno altro da fare perché non c’è tempo da perdere. Da una parte i normali e dall’altra Matteo, quello venuto male. Non c’è necessità di porre alcun filo spinato, è stata la natura stessa a mettere delle barriere insormontabili tra lui e gli altri. La famiglia Martellone ha vissuto avvolta dentro questi pensieri melmosi per anni e anni. In molti ridevano quando Matteo si iscrisse al Liceo Scientifico di Avezzano. Ancora una volta quella famiglia lo aveva illuso gettandolo dentro un’impresa più grande di lui. Invece, al Liceo sono arrivati gli amici e i professori disposti ad ascoltare, perché in tutta questa storia, gli unici veri disabili sono quelli che non hanno avuto orecchie per ascoltare, occhi per vedere e un cuore per comprendere che Matteo c’era. Eccome se c’era. Si trattava solamente di trovare una chiave per accedere al suo universo; invece, in tanti quella chiave l’hanno gettata in fondo a un pozzo lasciandolo rinchiuso in una cella ammuffita. La laurea rappresenta la chioma dell’albero, ma senza quelle radici profonde nulla sarebbe stato possibile. Ora i social lo hanno premiato e le parole di solidarietà, stima e ammirazione sono piovute dall’alto belle e luminose come stelle cadenti. Desiree mi spiega che alcuni, pochissimi per fortuna, dopo il clamore suscitato dalla laurea di suo fratello, attraverso i social hanno espresso commenti del tutto inappropriati. Qualcuno si è permesso di scrivere che la sua laurea è figlia delle raccomandazioni, che non è accaduto nulla di straordinario, che Matteo è un esibizionista e via dicendo. La parte terribile dei social è confinata tutta lì, tra quelli che esprimono sentenze senza sapere. E meno sanno, più si ergono a portatori di verità. Usano le parole senza conoscerne il senso, mortificano e umiliano. Loro sì che non sono in grado di ascoltare e purtroppo non sarà la medicina o la tecnologia a salvarli, gli unici rimedi per recuperarli si chiamano cultura, conoscenza e rispetto per l’altro. Valori che non si comprano su internet, ma che dovrebbero essere trasmessi dalle famiglie, dalla scuola e da chi realmente immagina che possa esistere un mondo migliore. Anche per questi motivi abbiamo pensato che la storia di Matteo sia in linea con il progetto “#cuoriconnessi”. «Sai, Luca – mi racconta Marco, il papà – quando Matteo è diventato sordo aveva smesso di dormire e io, per due o tre anni, ho trascorso ogni notte in bianco e poi andavo a lavorare. Eravamo soli a combattere la nostra battaglia, per questo dico sempre ai miei figli di aiutare gli altri e di non tirarsi mai indietro se dovessero incontrare qualcuno in difficoltà.» Ascolto in silenzio. Cosa volete rispondere a un uomo, a un padre che usa parole del genere? Ho la certezza che tornerò a trovarli e continuerò, anzi continueremo, a tifare per questa famiglia che ha trasformato in granito le proprie fragilità. Tempo di tornare a casa, e prima che io salga in auto, Monica mi consegna Il figlio del silenzio, libro denso di significato che ha scritto nel 2017. Un diario di bordo crudo, che non concede spazio a sentimentalismi e gira alla larga dal pietismo e dall’autocompassione. È il percorso di una famiglia. Di una mamma che per anni, come un mantra, ha ripetuto al figlio: «Tu sei intelligente e lo puoi fare». Una madre che non ha mai voluto che Matteo imparasse la lingua dei segni, con tutto il rispetto per chi la conosce, in quanto lui doveva riuscire a parlare come tutti gli altri. Una madre che ha impiegato due giorni ininterrotti per fargli pronunciare la lettera «l». E da problemi nascevano altri problemi, tutto e sempre più difficile del previsto. Prima di partire faccio giusto in tempo a leggere la dedica. «A mio marito. A mia figlia Desiree. A mio figlio Matteo, che la vita possa ripagarlo di tutte le sofferenze.» Concordo.