La storia di

Cioluz

Sapevo tutto. Sapevo benissimo che chi conosciamo online potrebbe essere chiunque, mi sentivo preparato e pronto per poter affrontare qualsiasi situazione. Mi sentivo furbo! Non avevo fatto i conti con la scaltrezza di chi ci raggira online e di quanto sia facile cadere in qualche trappola. Quando poi metti a fuoco è troppo tardi, ti guardi indietro e ti domandi come hai potuto credere a tutte quelle cazzate.

Ascolta questa storia raccontata da Luca Pagliari

“E tu Cioluz ti fidi di me? Si. Mi fido ciecamente.”

Ho la sensazione che da sdraiato l’angoscia ti stia appiccicata addosso come una coperta pesante, oppure come le corazze che s’infilano in House of the Dragon. Una cosa è certa, l’angoscia è più pesante di un masso di granito. Sono ridotto in piccoli pezzi non riconoscibili, disuniti e senza più una forma. Fisso il soffitto della stanza e mi sembra che sia pronto a crollare, facendomi scomparire da tutto e forse sarebbe meglio, mi sento in gabbia, nessuna via d’uscita. Non riesco a starmene sul letto e allora mi alzo in piedi, il cuore batte troppo veloce e m’impongo di respirare più lentamente; per qualche secondo va un po’ meglio, ma, appunto, è solo per qualche secondo. Cammino per la camera a piedi nudi cercando di confondere l’ansia, ma l’inferno che mi accompagna mi segue passo dopo passo. Questi sono i cinque mesi più lunghi dei miei primi sedici anni di vita. 

Mi affaccio dalla finestra, tanto dormire è impossibile. Una parete divide la mia stanza dalla camera da letto dei miei genitori. Un abisso. Loro dormono, certo che dormono, sono le tre di notte, cosa dovrebbero fare? Non sospettano nulla, pensano al lavoro e soprattutto io sono bravissimo a fingere. La finzione assieme alla disperazione è diventata la mia compagna di viaggio, sono diventato abilissimo a mascherare. Nei momenti in cui sto peggio scompaio senza farmi notare e poi riappaio dal nulla. La mia vita è un copione, è una maschera che devo indossare ogni maledetto giorno e non so ancora per quanto. «Cioluz, si può sapere che cavolo c’hai?» Me lo ha chiesto ieri mattina la prof di matematica che è sempre attenta a quello che succede in classe. Lei è una che si sbatte un casino, vuole stare sul pezzo, mica come quello di lettere che ancora non ha capito come si fa uno screenshot e che se gli dici «Netflix» pensa che sia una medicina. Con la prof per un istante mi ero sfilato la maschera e lei era stata brava a cogliere l’attimo, scovando nella mia espressione i segni della sofferenza. Anche per lei, come per tutto il mondo, io sono Cioluz. Io mi chiamo Lucio e il mio cognome comincia con la zeta, ho shakerato le lettere ed è venuto fuori Cioluz. Mi piace il nick Cioluz e l’ho utilizzato per firmare anche un paio di graffiti realizzati con il prof d’arte sul muro esterno della scuola. Ecco, lui è un figo come quella di matematica. Non giudica e non fa finta di essere un pischello, che è una delle cose più tristi che un boomer possa fare, e soprattutto quando ci racconta le storie degli artisti riesce a tirarti sempre in mezzo. Non sono proprio un writer, ma disegnare mi piace o almeno mi piaceva fino a quando la mia vita ha smesso di essere vita. Non esagero, ve lo garantisco. Sono diventato bravo anche a sparare balle in tempo reale: alla prof avevo risposto che ero messo male perché mio nonno sta morendo e a lui ci tengo un casino. Vero che il nonno sta molto male, vero che io ci stia soffrendo, ma non è per quel motivo che la notte mi ritrovo a combattere contro fantasmi e incubi. Vorrei non farlo, ma tutti i pensieri rotolano sempre verso la stessa direzione e quella maledetta scena si ricompone dal nulla, prende forma e si trasforma in realtà. La realtà è dura, mannaggia se è dura, ma purtroppo quel che hai fatto hai fatto. Sembra una delle solite frasi tipo «le cazzate si pagano» oppure «pensa prima di agire». A scuola ci imbottiscono di queste raccomandazioni, ma il problema è che se non ci passi, quelle restano solo delle parole inutili. Dovrei andarci io a parlare nelle scuole per spiegare cosa significa trovarsi nella merda, altro che gli esperti. Eppure sapevo, eppure non sono scemo, eppure… eppure… eppure. Intanto eccomi qui a fissare il camion della raccolta della carta che passa nella via di casa. Auto parcheggiate, marciapiedi deserti e gente che dorme. Gli unici svegli sono i due del camion con le casacche fosforescenti arancioni e io che li osservo in silenzio dalla finestra. Entro domattina devo decidere che fare. Entro domattina. Che casino. Così però, a parte che sono messo male, non ci state capendo niente, allora torno indietro e comincio tutto dall’inizio. Non lo faccio perché mi va di farlo, lo racconto sperando che qualcuno, leggendo la mia storia che non è ancora finita, apra gli occhi e sia meno ingenuo di quanto sia stato io. Solo per questo mi trovo dietro alla tastiera del tablet. Il primo contatto con Angela è stato su Messenger, che poi ho sempre usato pochissimo, roba di otto mesi fa. Angela ha ventidue anni ed era al suo primo incarico lavorativo all’interno di una importante agenzia pubblicitaria di Milano. Si trattava di uno stage non retribuito di sei mesi e il suo compito era quello di ricercare volti interessanti. Figure di adolescenti che fossero giuste per campagne pubblicitarie legate ai principali brand di abbigliamento sportivo, in particolare per spot tv e campagne social. Insomma, volti che bucano e che possano anche dire la loro come influencer. Mi aveva scritto che per fare scouting trascorreva giornate intere sui social a spulciare espressioni, outfit, reel, genere di amicizie, hobby, tendenze e tutto quello che buttiamo sul tavolo dei social. Il mio profilo Instagram l’aveva particolarmente colpita, almeno così aveva scritto. Come prima cosa, se eventualmente in agenzia fossi piaciuto, voleva sapere se ero interessato a questo genere di esperienza. Poche righe, ma molto chiare, il messaggio si chiudeva con una richiesta di riservatezza da entrambe le parti e questo mi aveva fatto sentire ancora più tranquillo. Sapevo benissimo che in rete è possibile incontrare gentaglia, pedofili, truffatori e “sparaminchiate” di ogni categoria. Era dalla prima media che avevano iniziato a riempirmi la testa con tutta una serie di raccomandazioni, ma Angela non aveva nulla in comune con tutta quella immondizia umana che galleggia nel web. Ero andato a controllare e l’agenzia di cui mi parlava esisteva eccome! In fin dei conti non avevo nulla da perdere e, trovando la cosa piuttosto figa, le chiesi cosa avrei dovuto fare. La sua risposta mi arrivò il giorno dopo: «Bene caro Cioluz, ovviamente, non posso prometterti nulla, ma il tuo profilo è tra i più interessanti che mi siano capitati sottomano. Pensa che persino il mio capo è rimasto colpito dal tuo sorriso e lui è uno che non spende mai una parola di troppo per nessuno. A breve ti farò sapere se ci saranno evoluzioni. Intanto, ti chiedo di mantenere la riservatezza più totale con chiunque, poi se dovessimo sottoporti un contratto ci metterai in contatto con i tuoi genitori. Mi raccomando, se un domani dovessi diventare famoso non diventare stronzo e rimani semplice e pulito come sei adesso! A presto. Angela.» La speranza che potesse accadermi qualcosa di bello e inaspettato iniziò a prendere forma e decisi di non condividere con nessuno quel sogno, almeno fino a quando le cose non si fossero concretizzate. Da Messenger siamo passati a chattare con WhatsApp e nel giro di pochi giorni quegli scambi di messaggi sono diventati roba seria. Per non invadere le nostre vite e rimanere nell’ambito di un rapporto professionale, Angela mi disse che al momento non sarebbe stato necessario sentirci al telefono e tanto meno vederci. Compresi e accettai quella indicazione che trovai sensata e corretta. Mi piaceva e mi faceva sentire figo leggere le sue parole e condividere la sua quotidianità. Seguendo spesso il suo capo in trasferte di lavoro, Angela incontrava personaggi dello spettacolo, influencer con milioni di follower, artisti e tutte le volte mi incoraggiava dicendomi che io avevo tutte le carte in regola per diventare come loro, solo che certe cose si costruiscono nel tempo. Ci conoscevamo da poche settimane, ma Angela era diventata una parte importante delle mie giornate, mi sembrava di conoscerla da sempre e poi con me, di giorno in giorno, si era aperta, mi aveva persino confidato di aver lasciato il ragazzo con cui stava da due anni, perché aveva scoperto che la tradiva con una sua vecchia compagna di liceo. Beh, certo che osservando le foto del suo profilo Instagram non ero sicuramente rimasto indifferente alla sua bellezza. Carnagione olivastra, capelli e occhi più neri di una notte senza luna e un sorriso di quelli che mica ti lasciano tanto indifferente. Poi quei denti bianchi e perfetti. Sì, Angela era bellissima. Mi aveva confidato che il suo capo le aveva proposto di comparire in qualche campagna pubblicitaria, ma a lei interessava lavorare nel backstage, lo trovava più coinvolgente e appagante. Una cosa era comunque evidente: quando trascorrevo più di un giorno senza ricevere un suo messaggio iniziavo a diventare ansioso, temevo che potesse essersi stancata di chattare con un ragazzino di seconda liceo e, nello stesso tempo, mi sforzavo di non scriverle per paura di disturbarla e, magari, fare anche la figura del coglione appiccicoso. Ecco, posso dire con certezza che quando sentivo il suono di una notifica e scoprivo che era un messaggio di Angela, in quegli attimi era come se qualcuno mi avesse sbattuto il cuore dentro una lavatrice in centrifuga. Mi ritrovai senza quasi rendermene conto ad essere dipendente dai suoi messaggi. Non c’era stato un momento preciso in cui tutto ciò aveva preso forma, nessun colpo di fulmine. Dentro quella situazione, c’ero scivolato semplicemente chattando e non ne ero certamente pentito. Un pomeriggio mi trovai di fronte a una notifica che mi lasciò senza fiato. Al suo messaggio, Angela aveva allegato la foto di una pubblicità di sneaker, il testimonial era un modello e dalla faccia sembrava americano o giù di lì. Sotto lo screenshot della foto, Angela aveva aggiunto questa frase: «Il capo ha detto che tu potresti andar bene per la seconda parte della campagna che partirà tra sei mesi. Mica male! Questa sera posso scriverti verso le 22 o fai già la nanna?» Le sue provocazioni mi facevano incazzare terribilmente, perché mi faceva pesare i sei anni di differenza. Io ero lo sbarbatello liceale e lei la ragazza che stava entrando nel mondo del lavoro. Contemporaneamente, però, quel suo modo di fare mi affascinava da morire; facevo del tutto per mascherarlo, ma era così che stavano le cose. Beh, inutile aggiungere che fino alle ventidue non feci altro che osservare le lancette dell’orologio che continuavano a procedere con una lentezza snervante. Fortunatamente, dalle 18:00 alle 20:00 gli allenamenti di basket mi aiutarono a distrarmi e poi mi ritrovai a cena con i miei. Mamma, a cui non sfugge mai nulla, mi disse che quella sera sembravo particolarmente euforico, mentre papà rimase sorpreso che preferissi rintanarmi in camera invece di guardare assieme a lui la partita di Champions League. Esattamente alle 22:03, quando già stavo cominciando ad agitarmi per il ritardo, sentii il meraviglioso suono della notifica. Il primo quarto d’ora, la sommersi di domande in merito alla possibile campagna pubblicitaria di cui un domani sarei forse stato testimonial. Lei aveva sempre la risposta giusta, mai sopra le righe, realistica e concreta. Le parole quasi mai nascono e muoiono da sole, spesso ne richiamano altre e finiscono con il trascinarti dove vogliono loro, ed è stato così che esaurito il tema lavoro, forse per la prima volta, ci siamo ritrovati a parlare di noi stessi senza più paure o pregiudizi. Fu come ritrovarsi improvvisamente soli e il coraggio prese senza fatica il posto della paura. La chat quella sera si era trasformata in un luogo d’incontro sospeso nel tempo e nello spazio. Assieme scoprimmo che le nostre emozioni erano perfettamente sovrapponibili, così come anche tanti dubbi e altrettante perplessità. Angela, ventuno anni, e io, sedici, non ci eravamo mai visti, non conoscevamo neppure la voce dell’altro, eravamo separati da centinaia di chilometri, eppure tra noi era accaduto qualcosa. Assurdo innamorarsi di una persona solamente per ciò che scrive, per quello che posta nei suoi profili, per i suoi reel e per delle foto. Assurdo, ma non impossibile, perché a noi tutto questo era realmente accaduto. Ricordo che a un certo punto un suo messaggio mi tolse quasi il respiro: «Con te mi sento libera, avverto che posso fidarmi senza paura. Posso inviarti delle foto molto, molto personali? Le ho scattate pensandoti. Lo so che non penserai che io sia una di quelle. Noi siamo oltre.» Le risposi che avevo ben chiaro chi fosse lei e consideravo quel gesto come una grande prova di fiducia. Sì, le avrei viste con emozione, era una cosa tutta nostra, una trasgressione intima e profonda. Avevo il cuore in gola, sdraiato nel letto a contare i centesimi di secondo, e poi finalmente le foto sono arrivate. Angela, nuda, era un sogno da cui non mi sarei più voluto svegliare. Lei si stava fidando di un pischello di sedici anni, era incosciente e coraggiosa, ma questo faceva parte del suo modo di essere. Ovviamente passammo un’altra ora a chattare commentando le foto e spingendoci con le parole in luoghi inesplorati. Poi, a notte fonda, il messaggio attorno a cui ruota tutta questa storia: «E tu, Cioluz, ti fidi di me?» Risposi in meno di un secondo: «Sì. Mi fido ciecamente.» È quasi l’alba, il cielo comincia a schiarirsi e già due persone sono salite sulle auto per andare al lavoro. Raro vedere due posti liberi nel parcheggio sotto il palazzo. Cose che possono capitare solo alle 5:30 del mattino. Forse, ripensando a quel messaggio, in quell’attimo, avevo firmato definitivamente la mia condanna. Chi si fida ciecamente di qualcosa non è più in grado di scorgere nulla, rinuncia a porsi domande e a cercare risposte. Adesso è semplice comprendere, peccato sia troppo tardi. Ancora il sole non è spuntato, devo trovare la forza di decidere, non posso farne a meno. E qualsiasi decisione prenda, anche quella di non fare nulla, rappresenta sempre una decisione. Sotto casa, passa un furgone bianco, accosta di fronte al bar e un tipo con la felpa di pile rossa apre il portellone posteriore ed estrae almeno dieci cartoni con dentro cornetti, bomboloni, maritozzi e ogni ben di dio. Lo invidio, lui è tranquillo, sta facendo il suo giro di consegne e poi magari si gode la giornata. La serenità ha un valore inestimabile, peccato che uno se ne accorga solamente quando te l’hanno rubata. Dopo quella serata, Angela aveva continuato a inviarmi foto sempre più intime. Non accadeva tutte le sere; a volte, diceva di vergognarsi un po’ e che non lo avrebbe più fatto, ipotesi che mi terrorizzava. A volte, passavano un paio di giorni in cui non accadeva nulla, ma poi tutto ricominciava con ancora più convinzione. Quando con grande pudore mi confessò che le sarebbe piaciuto ricevere delle mie foto, sentii una sorta di vuoto nel mezzo dello stomaco, riempito all’istante da una scarica di adrenalina potente come un fulmine. Finsi di pensarci, presi qualche minuto di tempo, ma sapevo che stavo cercando di ingannare me stesso, perché la decisione l’avevo già presa. Fu così che entrammo nella seconda fase del nostro rapporto virtuale e giorno dopo giorno iniziammo a spostare i confini della decenza sempre un po’ più in là. Era quasi una sfida, una fissazione e l’obiettivo era trasgredire inventando sempre qualcosa di nuovo. Provocare ed essere provocati era diventato il nostro gioco. In poco più di un mese e mezzo, mi ritrovai a inviarle oltre cinquanta video pornografici che mi vedevano protagonista. Inutile entrare nei dettagli, non ha senso starvi a descrivere quali fossero i contenuti di quei video, però vi garantisco che per quanto possiate immaginare, io sono andato oltre. Ero accecato. Nessuna preoccupazione, perché in fin dei conti i video che a sua volta mi girava Angela costituivano la garanzia che non sarebbe mai potuto accadere nulla di spiacevole. Ognuno avrebbe potuto distruggere l’altro, ma ad un certo punto eravamo talmente presi dalla ricerca di cose estreme che il possibile pericolo non venne neppure più preso in considerazione. Condividere cose intime con una persona che non avevo mai visto, mettere nelle sue mani la mia reputazione e la mia dignità, lo so che sembra impossibile, lo so che molti di voi staranno pensando a quanto sia stato coglione, ma purtroppo queste cose accadono, sono la parte più oscura e malata della rete, quella che non vedi e ti risucchia, quella che improvvisamente, da un giorno all’altro ti presenta il conto da pagare e non tutti, me compreso, sanno dove trovare le risorse morali e psicologiche per venirne fuori. Alla prima richiesta di riscatto pensai ad uno scherzo, anche se Angela non era tipa da scherzare su questioni del genere. Al terzo o quarto scambio di messaggi cominciai a mettere a fuoco quale fosse la realtà e la prima sensazione fu quella di scappare. Ma da chi? Per andare in che posto? E poi quei video mi avrebbero potuto raggiungere ovunque. Delusione, rabbia, terrore, qualcosa di terribile aveva iniziato a corrodermi l’anima. Uno stato psicofisico che non auguro neppure al mio peggior nemico. Improvvisamente, Angela non esisteva più. Tutto finito. Chi ora chattava con me sembrava non avere cuore. Istintivamente, provai a minacciare quella entità oscura che proveniva dall’universo online, scrivendo che anche io avrei potuto postare i tanti filmati di Angela. Tutto sommato, pensai che ancora nulla fosse perduto, ma la risposta alla mia minaccia fu molto chiara: «Fai pure, non penso che la gente si entusiasmi più di tanto nell’osservare i giochi erotici di una prostituta. Roba già vista. Lei neppure ti conosce. Sicuramente i tuoi genitori, i professori e i tuoi compagni saranno invece entusiasti di vederti all’opera. Da quale video vuoi che iniziamo?» In quel preciso istante, avvertii che ero all’inizio della fine. Solo in quel momento mi resi conto che io di quella Angela non sapevo nulla e quando dico nulla, intendo veramente niente. Neppure la sua voce avevo mai sentito. Lei preferiva così, lo riteneva più intrigante. Scriveva che la sua voce l’avrei ascoltata solo quando ci fossimo incontrati; sarebbe stato tutto più emozionante. Sì. Ero stato un coglione, un perfetto coglione. Mi ero infilato dentro un incubo senza opporre la minima resistenza. Avete presente le trappole per topi? Io ero stato persino più stupido di quei ratti. Da quel primo tentativo di riscatto erano oramai trascorsi tre lunghissimi mesi. Inizialmente, le richieste erano contenute. Bonifici da cento, centocinquanta euro effettuati su conti correnti non identificabili. Non avevo alternativa. Chi chattava con me, uomo o donna, non potevo saperlo, continuava a garantirmi che entro tre mesi sarebbe finito tutto, ma che io avrei dovuto essere ragionevole e collaborare. «Puoi solo fidarti e fare il bravo. Vedrai che risolveremo tutto.» Questo è quanto mi scriveva abitualmente il mio torturatore. Nel giro di tre mesi, gli avevo consegnato tutti i miei risparmi, oltre ottocento euro. Nel frattempo, via internet, ero riuscito a tirare su qualche soldo vendendo delle felpe e delle sneaker. Altri milleduecento euro me li ero procurati lavorando come commesso saltuario in un negozio. I miei erano stupiti e allo stesso tempo orgogliosi per quel mio desiderio di guadagnare un po’ di soldi per gravare meno sulle loro tasche. Non avevano la minima idea che quei soldi non avevo fatto neppure in tempo ad incassarli che già erano stati risucchiati da un misterioso conto corrente. Due sere prima era arrivata la richiesta più alta: «Trova tremila euro, chiudiamo questa storia e siamo tutti contenti.» Provai a spiegare che ero disperato, che non disponevo di una somma così alta e che mi stavano uccidendo. Implorai chi era dall’altra parte della rete di mettersi una mano sul cuore, ma non ottenni alcuna risposta. Il sole inizia a sorgere e la città improvvisamente respira, si stiracchia e riprende vita. Serrande che si alzano, rumori di auto in strada, il primo vociare che arriva dai marciapiedi. Nell’appartamento accanto, qualcuno ha acceso la tv tenendo il volume troppo alto. Inizia un nuovo giorno. Entro mezzanotte dovrò fare il bonifico da tremila, ma già so che potrei convincere il mostro a dividerlo in due rate. Io, non li ho i tremila. Ho pensato che i nonni potrebbero aiutarmi e poi in banca ho cinquemila euro, sono tutti i soldi che mi hanno regalato dalla comunione in avanti. Mamma dice che con quelli mi dovrò pagare le tasse universitarie. Io però sono minorenne e non posso ritirare da solo quella somma, dovrei inventarmi una cazzata di quelle grosse, l’ennesima. Sì, potrei fare così, tentare e sperare che veramente dopo questi tremila tutto finisca, ma se non dovesse finire? E cosa potrebbe accadere se decidessi di raccontare tutto ai miei? E poi, dove trovo la forza di confessare quello che ho combinato? L’idea che tutti possano vedere quei video mi blocca l’intestino e mi fa gelare il sangue. Alla fine, decido. Decido e so che non tornerò indietro, non penso ci sia scelta, non penso che ci siano altre strade percorribili. Mi vesto lentamente, con meticolosità mi allaccio le scarpe e indosso la solita felpa blu, quella che mi accompagna da anni nella buona e nella cattiva sorte. Nel frattempo, in cucina sento armeggiare, rumori inconfondibili, il gorgoglìo della macchinetta del caffè, il cassetto dove teniamo i biscotti che si apre, mamma che domanda a papà come mai Lucio ancora non sia a far colazione, ma io entro proprio in quell’istante. Respiro come se dovessi inalare tutta l’aria di casa, mi siedo e non so per quale motivo la voce mi esce fuori senza troppe increspature: «Papà, mamma, sedetevi perché vi devo parlare.» Solo in quell’istante, per la prima volta dopo mesi, avverto che finalmente sto facendo una cosa giusta. 

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