La storia di

Roy (e Chicco)

Chicco non c’è più. Questa ragazzi è una frase, anzi un pensiero, che mi accompagna giorno e notte. Non mi viene a bussare nel cervello solo la domenica mattina quando ho la partita.

Ascolta questa storia raccontata da Luca Pagliari

«Ogni uomo è colpevole di tutto il bene che non ha fatto»
(Voltaire)

Chicco non c’è più. E sono passati tre mesi da quando è successo il fatto, ma per me è come se fosse adesso. Dicono che il tempo aiuti, al momento mi sembra sia una grande cavolata, perché io ogni giorno sto peggio di quello prima e sapete perché? Perché mi rivengono in mente vecchi particolari, piccoli episodi, situazioni che pensavo di aver rimosso e che invece tornano a galla, riemergono. Io non so dove il cervello conservi tutti questi file, è una specie di cloud che conserva tutto e, quando gli pare a lui, fa il download. Io sono Roy, non è un soprannome, mi chiamo proprio così e tutte le volte devo spiegarlo. In genere la seconda domanda è perché mi hanno chiamato Roy e la risposta è sempre la stessa; mio padre è americano, lavora nell’esercito e vive in Italia da molti anni, il suo miglior amico vive a Pasadena (anche papà è di lì) e si chiama Roy, allora lui e mamma hanno deciso di chiamarmi così. Tutto semplice, solo che raccontarlo ogni volta è una bella palla. In genere ogni estate andiamo a Pasadena a trovare nonni, zii, cugini e naturalmente Roy che io chiamo uncle Roy, zio Roy. Lui fa l’ingegnere e lavora alla NASA, un giorno ci ha portato a visitare i laboratori che si trovano fuori città ed è stato molto figo, ho visto un sacco di cose che sembrano uscite da una serie di Netflix, però a dire il vero non ben capito cosa accada in quel posto. Io sono nato in una città del Veneto, ho quasi sedici anni e frequento la seconda superiore, un liceo scientifico per essere precisi. Molti dicono che ho la faccia da americano, però secondo me assomiglio di più a mamma che è nata a Vicenza e comunque sia mi vado bene così, non sono di quelli che si fanno troppi problemi su come tagliarsi i capelli o su come mettersi in posa per un selfie. Poi agli americani piacciono il football americano, il basket o il baseball, io invece sono fissato con il calcio, sono un esterno destro, per capirci uno di quelli che giocano larghi sulla fascia, ma di questo immagino che ve ne freghi molto poco. Chicco non c’è più. Puntualmente, come una goccia che scalfisce la roccia, quella frase torna a penetrarmi nel cervello, ma mica solo nel cervello, è come se mi rimbombasse dentro, difficile da spiegare, ma ogni volta che mi viene in mente io sento una stretta allo stomaco, provo anche una sensazione di stupore perché mi sembra impossibile che tutto ciò sia accaduto. Certe cose succedono sempre da un’altra parte, solo che questa volta dall’altra parte ci sono io, c’è la mia classe, la scuola, la mia famiglia, il papà di Chicco e sono tutte cose vere, reali. Come posso spiegarvelo? Non è una notizia che abbiamo sentito alla TV, questa storia di Chicco è successa davvero. La sto prendendo alla larga perché faccio un casino di fatica a raccontarvi qual è la cosa che mi toglie il respiro e che mi fa stare veramente male, io per questa faccenda vado una volta alla settimana dallo psicoterapeuta, mica mi vergogno a dirlo e poi se ho deciso di scrivere la mia storia è perché voglio raccontarvi tutto, mica le cose a metà. Quel peso enorme che mi accompagna si chiama rimorso, solo a scrivere questa parola comincio a soffrire. Rimorso, senso di colpa, chiamatelo come vi pare. E non va più via questa roba, come certe macchie sulle T-shirt che più le lavi e più la macchia sembra diventare grande. Chicco non c’è più. Penso sia arrivato il momento di raccontarvi tutto, inutile girarci intorno, ma vi garantisco che ogni parola che scrivo assomiglia a una specie di pugnalata. Quando ho detto alla psicologa che avevo intenzione di buttare giù qualcosa di scritto, lei mi ha subito incoraggiato, mi sa che se non fosse stato per lei non ne avrei avuto il coraggio. L’altra parola che mi fa saltare dalla sedia è “coraggio”. Quello che troppe volte non ho avuto. Certe situazioni le vivi in apnea, le guardi, le osservi da lontano e nel frattempo non fai assolutamente niente. L’idea di fare qualcosa ti passa per il cervello, ma tu la lasci andare e rimani fermo come una statua di sale. Il segreto per non agire è voltarsi dall’altra parte, cercare giustificazioni del cavolo, tipo “mi faccio gli affari miei”; “non è niente di grave”; “certe cose sono sempre accadute”; “prima o poi finirà” e via dicendo. Di scuse ne potrei trovare mille, ma nel frattempo le ingiustizie continuavano ad accadere. Che nessuno abbia fatto nulla non mi consola per niente, perché io è con la mia coscienza che devo fare i conti, mica con quella degli altri. E adesso faccio un respiro profondo e comincio a raccontarvi tutto dalla fine e cioè da quello che posso considerare il giorno più brutto di questi miei primi quindici, quasi sedici, anni di vita.

11 aprile 2024

«Royyyy! Giù dal letto!! Ti accompagno io a scuola perché oggi c’è sciopero dei mezzi, muoviti che sono già le sette». È quasi sempre la voce di mamma a svegliarmi, è così dalle elementari, quel giorno era particolarmente frettolosa per ché doveva entrare in ufficio alle otto e un quarto e prima c’era da scaricare mio fratello Daniele alle elementari e poi accompagnare me. Per carità, il mio liceo è di strada, ma in città dalle sette e mezzo alle otto e mezzo le strade sono super incasinate. Papà quei giorni era all’estero, se non sbaglio in Polonia, capita spesso che lui sia fuori per lavoro. Ricordo la solita colazione di sempre, i denti lavati in fretta e poi mi sono infilato una felpa celeste che mi piace da morire. Secondo me siamo saliti in macchina verso le sette e mezzo e al secondo semaforo ha squillato il telefono di mamma (mia madre si chiama Antonella) che era collegato al vivavoce. Sul display del cruscotto è comparso il nome di Manuela D., una Prof. del mio liceo. Manuela non insegna nella mia sezione, ma è una delle amiche più care di mamma. «Ciao Anto, posso parlare? Hai un minuto?» Dal tono ho capito subito che c’era qualcosa che non andava, anche mamma doveva averlo compreso: «Manuela sono con il vivavoce, sto portando a scuola Filippo e Roy, posso richiamarti tra cinque minuti?» «Si, certo. Fallo appena puoi, magari dopo che hai lasciato Filippo a scuola». Naturalmente Filippo, che è più curioso di una scimmia, si era messo a sbraitare che anche lui aveva diritto di sapere, ma dopo un minuto già pensava ad altro. Quando è sceso dalla macchina con il suo zaino che è sempre stracolmo di tutto, la prima cosa che ha fatto mamma è stata richiamare Manuela che ha risposto al secondo squillo. «Antonella, è sceso Filippo?» «Si si, da un attimo, sono in macchina con Roy, che è successo?» «Beh, meglio che ci sia anche Roy, almeno viene a sapere la cosa da me. È successa una tragedia, un ragazzo della sua classe ieri sera si è tolto la vita». «Ma che stai dicendo Manuela? Di cosa parli?» Mamma, esattamente come me, ha avuto bisogno di prendere qualche secondo di tempo, perché non esiste al mondo che una mattina di aprile mentre tua madre sta andando al lavoro e nel frattempo ti sta accompagnando a scuola possa arrivare una telefonata del genere. Non c’entra niente, non rientra tra le cose possibili, non è neppure fantascienza. È il nulla. «Roy, purtroppo è successa una tragedia. Chicco F. non è più tra noi. Appena l’ho saputo vi ho telefonato ma non volevo che Filippo sentisse queste parole, poi anche lui conosce Chicco visto che se non sbaglio è tuo amico». Avrei voluto dire qualcosa ma invece ero come incollato al sedile, seduto alla destra di mamma. Non esisteva più il traffico e la gente sui marciapiedi, c’era solo quella voce che si spargeva per la macchina dicendo cose assurde. «Scusa Manu, ma stai parlando di Chicco F., giusto? Ma come è possibile? Sei sicura di quello che stai dicendo? A volte girano voci incontrollate, magari è in ospedale, ma cosa è successo? Qualcosa con lo scooter?» «No Antonella. No. Forse sarebbe stato meglio. Ecco, Chicco forse verso mezzanotte, ma ancora nessuno ha notizie precise, si è ammazzato. Si è gettato nel fiume. Dicono che i Vigili del Fuoco lo abbiano ripescato verso l’alba un po’ più a valle, dove ci sono le grate della chiusa». Continuavo ad ascoltare, impassibile e immobile, anche se ancora avevo dentro una specie di speranza, forse quasi una convinzione che fosse tutto un errore, compresa quella telefonata del tutto fuori luogo. «Ma siamo sicuri che sia lui?» Ha detto mamma, cercando di aggrapparsi a qualsiasi ipotesi che fosse in grado di evitare la realtà. «Purtroppo sì, il padre ha iniziato da ieri sera a cercarlo, perché lui è scomparso subito dopo cena e verso le ventidue ha dato l’allarme. Mi dicono che abitino vicino al fiume e quindi sono iniziate subito le ricerche. Roy, ci sei?» Risposi con un filo di voce «Sì», senza aggiungere una virgola in più. In realtà non c’ero, perlomeno con la testa, Chicco si era ammazzato. Mentre io la sera prima stavo guardando sul tablet la puntata di una miniserie, lui era uscito di casa e si era tuffato nelle acque scure del fiume. Lui era Chicco, quello con cui avevo condiviso le elementari, le medie ed ora anche le superiori. Da un paio di anni le nostre strade si erano divise, o meglio, lui era cambiato, ma di questo ve ne voglio parlare più avanti, adesso rimaniamo a quella telefonata che probabilmente ha modificato per sempre il mio modo di vedere la vita. «Senti Roy, è devastante aver fatto questa telefonata, perdonami, ma almeno quando arrivi a scuola sei già un minimo preparato. Era un tuo compagno di classe, giusto?» «Sì. Eravamo in classe assieme». Ricordo che dopo quella mia risposta secca pensai subito alla domanda successiva che infatti arrivò puntuale. «Ma avevate la minima idea che potesse accadere qualcosa del genere? Com’era questo ragazzo in classe?» Mentii senza pudore. Raccontai una stupidata a Manuela, a mamma, al mondo intero e soprattutto a me stesso. «Non ho idea. Era tutto normale. Era tutto normale». Lo ripetei due volte, mamma ascoltava e nel frattempo ci trovammo di fronte all’enorme portone del liceo, il più antico della città. Fuori c’erano capannelli di studenti e, soprattutto, due auto della Polizia. Dunque, era tutto vero, non era un incubo, o meglio, in quel preciso istante scoprii che gli incubi si possono avere anche da svegli. Chicco era morto, ovverosia non esisteva più, non sarebbe più entrato in classe, non avrebbe più mangiato in silenzio il suo solito panino fontina e prosciutto all’intervallo, Chicco era l’unico a portarsi la merenda da casa. Nessuno lo avrebbe più interrogato e soprattutto, pensiero orribile, nessuno lo avrebbe più tormentato o ignorato. Quello fu il primo istante in cui il senso di colpa mi cadde addosso come un macigno di quelli pesanti che vedi in montagna, anzi, forse quel senso di colpa assomigliava più alla montagna stessa che al macigno. Mamma era angosciata e smarrita, ricordo che avrebbe voluto dirmi delle cose ma nel frattempo c’erano altre macchine in colonna, accostò alla meglio sulla destra e si limitò a dirmi «Mi raccomando Roy. Adesso chiamo papà. Ci vediamo dopo a casa». Quel “chiamo papà” lo aveva detto con un tono che conoscevo molto bene. “Chiamo papà” perché poi ci pensa lui a sistemare le cose, a trovare la soluzione e via dicendo. Mentre mi avviavo verso il portone mi venne in mente la volta in cui ero rimasto con la testa infilata tra le sbarre del giardino, quelle cose assurde che accadono quando hai sette/ otto anni. Ero lì incastrato e soprattutto terrorizzato come una bestia finita in trappola, ma quando mamma disse la fatidica frase: «Adesso chiamo papà» mi sentii subito sollevato, lui avrebbe certamente risolto il problema. Questa volta invece quella frase non ebbe lo stesso potere tranquillizzante, mi sembrarono parole inutili, perché ormai tutto si era compiuto. Attraversai il portone evitando di incrociare qualsiasi sguardo e mirai dritto alla classe che si trova al secondo piano, la prima sulla destra. Più o meno c’eravamo tutti, i soliti giubbotti appesi all’attaccapanni, sentii qualcuno dire «Non ci posso credere», altri bisbigliavano tra loro scambiandosi dei pensieri e poi finalmente arrivò Riccardi, il Prof. di Lettere. Chicco. Fino a quando non si chiuse la porta sperai di vederlo entrare come sempre, esile, silenzioso, con addosso il solito giubbotto di jeans e un paio di sneakers sfondate. Mi sembrò quasi un controsenso, lui, un invisibile, uno che nessuno lo considerava quando era presente, adesso che era sparito per sempre sembrava riempire con la sua assenza ogni singolo centimetro quadrato della nostra aula. Non esserci per esserci. Era accaduto qualcosa del genere. Rumore di sedie, ci mettemmo tutti seduti in attesa di qualcosa che potesse dare un senso a quella giornata. Riccardi faticò a trovare le parole ma almeno fu molto bra vo a non dire le solite banalità, poi alle dieci ci radunarono tutti in palestra e il Preside tenne il suo discorso di cui non ricordo nulla. Di quella mattina ricordo solo il profumo della Prof. Doretti, il pianto della Ferroni di Educazione Fisica e Melli, mio compagno di classe, che dice nel corridoio «Noi non c’entriamo niente».

Ottobre 2014

La grande avventura delle scuole elementari non mi attirava minimamente, preferivo la scuola dell’infanzia dove si parlava solo in inglese, i miei compagni erano tutti figli di militari americani, eravamo pochi e tutti amici, ricordo il senso di smarrimento quando mamma mi accompagnò il primo giorno di scuola dentro quell’edificio che ai miei occhi sembrò immenso. Corridoi lunghissimi, e poi mentre mamma mi teneva per mano ricordo le facce di quelli di quarta e di quinta che mi sembrarono grandissimi e per un certo verso quasi pericolosi. Che ci facevo io così piccolo in mezzo a quel mondo di giganti? La maestra mi piazzò accanto a un bambino che si era già seduto, aveva i capelli castani come me e gli occhi chiari, quello fu il giorno in cui per la prima volta in vita mia incontrai Chicco, e fu un bel giorno, perché capii subito che non rappresentava una minaccia, tutt’altro. Mi sorrise e io mi sentii subito meglio. Difficile condensare cinque anni di scuola, i compleanni, le gite, i compiti fatti assieme e tutto il resto in poche righe, posso però dirvi che con Chicco ci facevamo innanzitutto un sacco di risate. Robe da bambini, tutte cose innocenti ma che ci facevano stare bene. Molto bene. La nostra era una bella classe, posso dire senza inventarmi niente che siamo andati sempre tutti d’accordo, merito anche delle maestre che sapevano sempre intuire le cose che non andavano. Con Chicco c’era però qualcosa di speciale, ci trovavamo, tutto lì. Poi la cosa che fa ridere è che io già andavo a giocare a calcio e lui lo detestava, a lui piaceva leggere e giocare in casa, io invece ero sempre pronto a sfidarmi in qualcosa, purché fosse all’aria aperta e mi impegnasse fisicamente. Mamma ha sempre detto che le mie batterie non si scaricavano mai, invece Chicco era molto più tranquillo. Forse queste differenze si compensavano, non lo so, ma quando uno si trova bene con un compagno o una compagna non è che sta lì a domandarsi perché. Sta bene e basta. Lui poi aveva un grande dono, la fantasia. Chicco era bravissimo a raccontarci storie che probabilmente erano del tutto inventate, ma noi lo ascoltavamo senza battere ciglio. Ero anche un po’ invidioso, perché a me piaceva una ragazzina che si chiamava Elisa, lei però sembrava avere occhi soltanto per Chicco. Per fortuna lui non se la cagava neppure di striscio e questo mi faceva stare tranquillo. Elisa, cavolo me ne ero quasi dimenticato, lei è stata il mio primo grande amore, adesso con la sua famiglia si è trasferita in Irlanda, chissà che cavolo starà combinando. È stato assolutamente un caso, ma con Chicco ci siamo ritrovati nella stessa classe anche alle medie. Amicizie diverse, si cresce, si cambia, ma lui era sempre Chicco, quello che mi aveva regalato un sorriso il primo giorno delle elementari e con cui avevo condiviso mille giornate. Per affezionarsi a una persona non c’è bisogno di andarci assieme al Polo Nord, secondo me ti affezioni quando ti vedi tutti i giorni e anche se una mattina non ti parli, sai che quella persona è lì, fa parte della tua vita. Poi c’è stato il campo scuola estivo organizzato dalla parrocchia. Forse alla fine della prima media. Siamo andati sull’Appennino accompagnati da Don Eugenio che quando s’incazzava ti tirava un mazzo che conteneva una ventina di chiavi. Roba che se ti avesse centrato come minimo ti giocavi un occhio! Ma quante risate. E la sera, in quelle camerate che puzzavano di muffa ma era ugualmente bellissimo, Chicco ci raccontava storie di paura. Fantasmi, assassini, paludi putride e tutte quelle cose lì. Cacchio, al buio non volava una mosca! Sì, il campo scuola fu fantastico, specialmente quando Don Eugenio cadde dentro un torrente mentre lo stavamo guadando. Lì per lì silenzio assoluto misto a terrore, ma quando il Don si è alzato tutto fradicio e ha sorriso, siamo letteralmente esplosi. Sembrano cavolate, ma certe cose mica le dimentichi. Non so se i grandi si dimenticano le storie di quando erano adolescenti, io penso che non le scorderò mai. In prima o seconda media è successa una cosa terribile, nel giro di pochi mesi un cancro si è portato via la mamma di Chicco. Cavolo se la conoscevo bene Jenny, quando andavo a casa di Chicco ci faceva sempre trovare qualche crostata super buona, e poi sorrideva in una maniera bella, da mamma buona, non so come spiegarlo. Tutti dicevano che Chicco le assomigliasse come una goccia d’acqua, ma io non ci ho mai fatto caso. Non sono esperto in somiglianze. A dodici anni non lo sai cosa sia la morte, fatichi a immedesimarti nel dolore dell’altro. Cavolo, che brutto ricordo quello del funerale. Faceva un gran caldo e c’era un sole che spaccava le pietre, uno in genere pensa che quando c’è un funerale piova sempre; invece, secondo me, il meteo se ne frega sia dei vivi sia dei morti. Quel pomeriggio eravamo in chiesa con tutta la classe ed io guardavo Chicco, che era di spalle, in prima fila, tra il papà e lo zio materno. Avrei voluto sapere se stesse piangendo o no. Con noi quel giorno non versò una lacrima. Tutto era accaduto quando la scuola stava per finire e poi c’era stata l’estate di mezzo. Che io ricordi è stato all’inizio della terza media che Chicco ha iniziato a distaccarsi un po’ dal gruppo della classe. Spesso si isolava e sembrava finire risucchiato dentro i suoi pensieri. Qualche volta, e questa è la pura verità, io e Lele abbiamo tentato di coinvolgerlo in qualche uscita pomeridiana, ma erano situazioni occasionali, Chicco in quel periodo preferiva frequentare alcuni compagni di un’altra sezione e comunque alla fine rientrava tutto nella normalità. Io avevo il calcio, i compiti, il corso di chitarra, insomma le giornate erano tutte piene e quindi inevitabilmente un po’ ti perdi. Nel tempo libero poi mi ritrovavo con i compagni di squadra perché il mio mondo era quello. Arriviamo all’estate tra la terza media e la prima superiore. Brutta storia, perché nell’ultima partita di campionato mi sono fratturato il polso destro. Quasi due mesi di gesso, una palla infinita. Non potevo fare un sacco di cose, a volte neanche ci rendiamo conto di quanto sia figo potersi alzare la mattina dal letto e usare le proprie gambe e le proprie braccia, poi ti spacchi un polso (l’osso che ho rotto si chiama scafoide) e scopri quanto poco ci voglia a finire nella cacca, tanto per non usare un altro termine. La terza coincidenza clamorosa è arrivata al liceo, sapevo che anche Chicco si era iscritto allo scientifico ma che fossimo nella stessa classe lo abbiamo scoperto solo il primo giorno di scuola. Naturalmente la questione ci ha fatto molto ridere, ancora una volta le nostre strade si erano incrociate. Sono bastati pochi giorni per capire che in classe si era formato un gruppetto di figli di papà. Molto fighetti ma soprattutto perfidi. Sempre pronti a criticarti se avevi una felpa sfigata, uno smartphone che non fosse di moda e non fossi disposto a sorridere loro facendo finta che ti fossero simpatici. Per l’esattezza erano due ragazzi e due ragazze. Svapavano tutti e in due avevano anche le minicar. Io li evitavo, anche Chicco li evitava, ma più o meno da novembre ha iniziato a farsi sempre più silenzioso e distaccato. Quando siamo rientrati dalle vacanze di Natale è accaduto qualcosa e non riesco ancora a capire per quale motivo. Il gruppetto ha iniziato a prendere di mira Chicco. Mica cose gravi, almeno apparentemente. Risatine, battute quando passava, e soprattutto ce l’avevano per come si vestiva, in quanto Chicco non ha mai seguito nessuna moda, si è sempre infilato addosso la prima cosa che aveva sottomano. Il secondo quadrimestre del primo anno prenderlo di mira per loro era diventata quasi un’abitudine. E Chicco? Secondo me sopportava in silenzio. In quel periodo ho sempre immaginato che fosse superiore a quelle stupidate. A volte parlavamo dei compiti, oppure mi chiedeva del calcio, ma non abbiamo mai affrontato l’argomento. Sapevamo tutti che il gruppetto aveva una propria chat a cui sicuramente erano iscritti anche altri ragazzi ed è stato verso la primavera che hanno iniziato a spargere la voce che Chicco avesse un fidanzato. Tutte stupidate, è vero che in quel periodo Chicco il pomeriggio usciva quasi sempre con un ragazzo dello psicopedagogico molto strano, lo conoscevo di vista e non potevi evitare di notarlo perché aveva due lacrime tatuate sotto gli occhi. Sapevo anche che aveva una storia familiare del cavolo, niente di più. Non penso che Chicco avesse tendenze omosessuali, sicuramente aveva una sensibilità tutta sua, questo era facile da comprendere. Al gruppetto era bastato vederli assieme in giro per iniziare a far circolare la voce che fossero due omosessuali. Scrivo “omosessuali”, ma ovviamente loro usavano un linguaggio  molto molto diverso. Primi di aprile, era una mattinata di pioggia, ricordo che appena entrato in classe trovai Chicco che stava dicendo a Nicola, il capetto dei quattro, di smetterla, di farla finita, perché lui non era gay e se anche lo fosse stato erano pur sempre affari suoi. Non presi le sue difese, non commentai, non feci nulla come tutto il resto della classe e mi sistemai al banco tirando fuori i libri dallo zaino. Non potevo immaginare che le violenze su Chicco fossero solamente agli inizi. Ultimo giorno di scuola. Sulla lavagna quando rientriamo dalla ricreazione qualcuno aveva avuto il tempo di scrivere: “Chicco o Checca? That is the question!!!” Ho ancora di fronte agli occhi l’immagine di Chicco che entra in classe, legge la scritta e mentre gli altri fanno finta di niente, compreso me, cancella con la manica della felpa quella offesa. Perché nessuno ha detto o fatto nulla? Bella domanda, peccato che io non abbia uno straccio di risposta da darvi. Nessuna. Ma se ci penso bene la risposta ce l’ho. Eccome se ce l’ho. Si chiama vigliaccheria. Mica facile ammetterlo, ve lo garantisco, ma è così che stanno le cose. Non so come abbia trascorso Chicco l’estate dopo la prima liceo, io l’ho passata per oltre un mese a Pasadena con la mia famiglia e uncle Roy. Siamo stati nella Death Valley, abbiamo attraversato il Grand Canyon che è lungo quasi cinquecento chilometri, la Monument Valley che è il posto più figo  che abbia mai visto e poi siamo stati a Las Vegas che ti lascia veramente senza fiato. È stato bello rientrare in Italia e subito dopo Ferragosto abbiamo ripreso gli allenamenti, è stato dentro lo spogliatoio, mentre ci cambiavamo, che Max mi ha chiesto se avevo saputo di Chicco. Naturalmente gli risposi di no. «Qualche giorno fa mentre passeggiava con quel suo amico nel parco pubblico – mi ha raccontato Max – in due o tre li hanno presi a sassate e all’amico di Chicco hanno dovuto mettere tre o quattro punti di sutura alla fronte». Ci rimasi molto male, poi venni anche a sapere che Tom, questo il nome dell’amico di Chicco, aveva sporto denuncia contro ignoti, perché il gruppetto era scappato subito e nessuno era stato in grado di riconoscerli. Per capire che le cose stessero precipitando fu sufficiente la prima settimana di scuola, quando iniziò a fare il giro della classe un meme con una foto di Chicco e Tom scattata di nascosto mentre passeggiavano, con sopra scritto “Just married”. Anche in questo caso nessuno ebbe il coraggio di consegnare quel meme a un Professore, e, quando dico nessuno, includo anche me. Chicco in classe non batteva ciglio, il suo rendimento era sempre abbondantemente sopra la sufficienza, ma lui assomigliava a certi fiori appassiti che a volte rimangono per un sacco di tempo dentro qualche vaso. Più ci penso e più il paragone mi sembra giusto, Chicco era appassito, isolato e in classe io non ricordo uno di noi che fosse capace di fargli una domanda semplice semplice: Come stai? “Chicco frocio; Chicco puzza; sfigato di merda; Chicco sorcio; Chicca regina di culi; Chicco bastardo; Chicco muori; Chicco il mondo non ti vuole” e poi la peggiore di tutte, questa me la fece leggere prima di educazione fisica un mio compagno di squadra che frequentava anche lui il liceo: “Chicco datti una mossa che tua madre ti aspetta”.Il giorno dopo, a scuola, decisi che gli avrei parlato per dirgli che tutto questo mi faceva schifo e che si sarebbe dovuto difendere da questi stronzi, ma neanche a farlo apposta lui era assente perché si era beccato l’influenza. Mi passò per la mente di parlarne anche con il Prof. Riccardi, ne parlai anche con un altro paio di compagni, ma alla fine non se ne fece nulla. Non ricordo chi, forse Milena, dise che semmai spettava a Chicco denunciare quello che stava subendo, quindi non erano affari nostri. Dopo tre o quattro giorni Chicco si ripresentò in classe ma io già pensavo ad altro, preso dal pallone, dalla chitarra, da Stefania con cui mi ero messo da un paio di mesi, preso dalla vita che mi piace da morire, anche se suona male, perché la vita non può piacerci da morire. Secondo me la vita può piacerci perché va vissuta, la morte non c’entra proprio niente. Ho un flash. La mattina del suo rientro mi limitai a chiedergli se fosse stato Covid o una semplice influenza e lui con il suo solito sorriso mi rispose: «Febbre e tosse. Solo quello. Grazie Roy». In questa maniera in un certo senso mi sentii più sollevato, ma dentro di me sapevo che il problema non era certo legato al mal di gola. Sono sicuro che Chicco decise di non dire nulla a suo padre per evitare di dargli un dispiacere. Già sapeva che la morte della mamma lo aveva messo a dura prova e quindi ha sperato fino all’ultimo che quel gruppetto se la facesse finita. Chicco fisicamente era piuttosto esile e del tutto incapace di qualsiasi gesto violento, forse anche per questo venne fuori la storia che nei gabinetti della scuola in più di una circostanza era stato circondato, minacciato, umiliato e spintonato. Fate attenzione, non ho scritto picchiato, erano troppo furbi e viscidi per lasciare segni sul corpo, e non erano più solo in quattro, perché a quel gruppetto della nostra classe si erano uniti altri elementi che io ben conoscevo. Degli esaltati che erano sempre a caccia di chi fosse diverso da loro. Come dicevo, niente segni sul corpo ma le ferite che segnano l’anima sono molto più profonde di un cavolo di livido. La vita intanto procedeva, ogni tanto saltava fuori qualcosa di brutto, ma era diventata quasi una consuetudine sapere che qualcuno aveva provocato Chicco. Una mattina, questo lo vidi con i miei occhi, lasciarono sul banco di Chicco un portacipria di plastica e un rossetto. Sempre con il rossetto avevano scritto sullo schienale della sedia “Chicca”. Lui si limitò ad alzarsi per cambiare la sua sedia con una pulita. Nulla di più. Questo episodio è l’ultimo che io ricordi prima che accadesse tutto. L’ultimo tra i tanti.

13 aprile 2024

In chiesa non si riesce quasi a respirare. Pioviggina ma anche il piazzale esterno è stracolmo di persone. Ci sono i giornalisti, le telecamere e un casino di studenti di tutte le scuole. La maggior parte di loro non conosceva Chicco ma hanno voluto ugualmente essere presenti. Io come sto Questa volta la dico tutta, sto di merda. Chicco si è ammazzato. Non so se riuscite a rendervi conto di quello che ha fatto. Continuo a immaginarmi l’attimo in cui si è gettato nel mezzo di quelle acque scure che la notte fan no un rumore che mette quasi paura, perché in quel punto l’acqua scorre veloce. Perché è potuto accadere tutto questo? Perché Chicco non ne ha mai parlato con il padre? Perché il padre non si è accorto di nulla? Perché nessun Professore ha notato il “Chicco fiore appassito?” Perché tanta cattiveria? E soprattutto perché io, e non gli altri, non l’ho sbattuto contro il muro dicendogli «Adesso io e te andiamo dal Preside e quelli li sistemiamo!» C’è una domanda che unisce tutte le altre. Perché in questo mondo c’è così tanto menefreghismo? Ognuno incapace di vedere l’altro, ognuno sempre pronto a dire «Io non c’entro» e in questo siamo bravissimi, se dobbiamo inventarci una scusa ci mettiamo un secondo, ma se il secondo dopo proviamo a riflettere, tutti, dico tutti, scopriremo che anche noi a volte siamo complici di un qualcosa di più grande e quindi anche di più pericoloso. Si chiama individualismo ed è più pericoloso di qualsiasi virus, perché non ci sono vaccini e neppure mascherine che possano difenderci da questa robaccia. Io stesso ho lasciato che le cose andassero, scorressero indisturbate come l’acqua del fiume dove Chicco si è buttato per farla finita. Il prete parla, da come è vestito mi sa che è un Vescovo, un Cardinale o qualcosa del genere. In seconda fila ci sono tante persone importanti, fuori è pieno di auto blu tirate a lucido che quasi si confondono con il carro funebre. Se mi alzo sulle punte riesco a vedere la bara, lì dentro c’è Chicco, quello che alle elementari mi ha regalato il suo sorriso senza pretendere nulla in cambio. Non mi ha mai chiesto aiuto ma questo non è sufficiente per farmi stare meglio, a volte bisogna dare senza aspettare che qualcuno chieda. Adesso, mentre passano l’incenso attorno alla bara tutto mi è diventato chiaro, spaventosamente chiaro, e i pensieri scorrono più veloci della luce. Io sono colpevole di ciò che non ho fatto. Molto colpevole. Sapevo. Come tutti. E cosa abbiamo fatto? Ci siamo voltati dall’altra parte e dall’altra parte sapete cosa c’è? Il nulla. Perché se non ti occupi dell’altro vuol dire che non sai neppure occuparti di te stesso, ma ora è troppo tardi. Io, almeno, ieri ho avuto il coraggio di andare ad abbracciare il papà di Chicco, sono stato uno dei pochi a farlo e prima o poi gli racconterò ogni cosa. Almeno questo a Chicco glielo devo. Sto scrivendo queste parole che escono da sole, quasi per forza d’inerzia. Per certi versi è una specie di liberazione, ma c’è soprattutto la speranza che qualcuno di voi comprenda, perché non c’è classe dove non esista un Chicco, dove non ci sia qualcuno che mira a fare del male e soprattutto dove non ci sia qualcuno che vede e conosce l’andamento delle cose. Sapete una cosa? Sono stato uno dei pochi che ha trovato la forza di presentarsi dal papà di Chicco, anche questo vi sembra normale? Certo che non è facile, specialmente se hai la coscienza più sporca dello straccio di un meccanico, ma a volte bisogna fare anche le cose difficili. Io parlo e scrivo adesso che è troppo tardi, eppure è tutto così chiaro, come ho potuto non agire? Come ho potuto essere così passivo di fronte a quel mare di ingiustizie? La messa è finita ma non ce ne andiamo in pace, ci sono i cori e la musica angosciante di un organo che rende tutto ancora più terribile, finalmente fuori! Respiro a pieni polmoni, in cielo si alzano centinaia di palloncini bianchi e quando la bara compare sul sagrato c’è un applauso lunghissimo che sembra non finire mai. Queste scene le avevo già viste in televisione e pensavo fossero quasi finte, invece sono vere, troppo vere per i miei gusti. In chiesa non ho visto il gruppetto che massacrava Chicco, evidentemente non hanno avuto il coraggio, chissà come staranno? Chissà se avranno minimamente capito che cosa hanno combinato? Chicco, a quanto sembra, non ha lasciato neppure un messaggio, niente di niente e questo mi fa impazzire. Se ne è voluto andare così, in silenzio, quasi senza disturbare, condannare o giudicare. Semplicemente non ne poteva più. Adesso sono io che vorrei scrivergli un messaggio e forse è proprio quello che sto facendo mentre sto mettendo in fila queste parole che sembrano allinearsi da sole. I giornali sono stati cauti, hanno scritto che presumibilmente si tratta di un caso di bullismo e di cyberbullismo, beh, io sono disposto a raccontare e sono anche in grado di recuperare qualche screenshot delle cose bestiali che sparavano contro Chicco, scrivo sparavano perché tra certe parole e un proiettile non c’è la minima differenza. Dicono che la Polizia abbia già qualche nome, presto, almeno questo dice la stampa, sequestreranno vari smartphone e lì amici miei non si cancella niente. Inutile far scomparire le chat. Tutto lascia traccia. Ce lo hanno spiegato più volte quelli della Polizia Postale quando sono venuti a incontrarci a scuola, eppure chi ha perseguitato Chicco è stato così stupido da non valutare che, prima o poi, si sarebbe trovato nei casini. Il carro funebre comincia a muoversi, non è previsto un accompagnamento perché la gente è troppa, andrà direttamente al cimitero e Chicco sarà sepolto accanto alla mamma. Improvvisamente, come una pugnalata, mi riviene in mente quella terribile frase che era comparsa in qualche chat: “Chicco datti una mossa che tua madre ti aspetta”, complimenti a chi l’ha scritta perché tutto si è avverato. Molto lentamente il piazzale si svuota, intravedo papà e mamma, alzo un braccio per farmi vedere e poi li raggiungo. Finalmente saliamo in auto, ha pure smesso di piovere, mi siedo sul sedile posteriore e prima che parlino loro sono io una volta tanto a dire qualcosa: «Andiamo a casa, vi devo raccontare delle cose, Chicco non si è ucciso perché era depresso, ce lo hanno portato al suicidio. Ho i nomi di quelli che lo hanno perseguitato, ho anche le prove, secondo me domani dobbiamo andare dalla Polizia». Papà e mamma ascoltano senza fiatare ma sono certo che hanno perfettamente compreso. Il Roy di prima non esiste più. Che a nessuno venga in mente di sostenere che Chicco si è ucciso perché era depresso, che non è mai stato bullizzato, che erano solo ragazzate e che nessuno sapeva nulla. Forse qualcosa per Chicco posso ancora farla; tutelare la sua memoria e sperare che qualcuno comprenda l’importanza di aiutare l’altro. Quando arriviamo a casa non mi sento più leggero, mi sento semplicemente una persona che dovrà fare il proprio dovere. Non è difficile, basta provarci.

Ottobre 2024

Roy nei giorni successivi al funerale, accompagnato dai genitori, si è recato presso un COSC (Centro Operativo per la Sicurezza Cibernetica) ed ha consegnato alla Polizia Postale numerosi screenshot di messaggi offensivi e oltraggiosi che erano stati rivolti a Chicco, nonché i nomi degli autori dei medesimi. Seguendo l’esempio di Roy altri compagni di classe hanno deciso di raccontare i tanti episodi di bullismo che sono avvenuti all’interno della classe, nei gabinetti della scuola ed anche in altri luoghi pubblici al di fuori dell’istituto scolastico. In seguito al sequestro degli smartphone del gruppo che si accaniva contro Chicco, sono state recuperate tutte le chat in cui veniva deriso e umiliato. Sono emerse anche le strategie attraverso le quali si mettevano d’accordo per accerchiarlo all’interno dei gabinetti. Sempre attraverso le chat è anche emerso che fu lo stesso gruppetto a colpire con un sasso Tom, l’amico di Chicco, nell’ambito di un vero e proprio agguato. Finora sono stati identificati sei soggetti, di età compresa tra i quindici e i diciassette anni, che hanno sottoposto Chicco a una serie di gravi vessazioni, sia fisiche che psicologiche. Quattro di loro frequentavano la medesima classe. Uno dei reati ipotizzati è quello di atti persecutori (art. 612 bis del Codice Penale), che si configura quando la vittima viene sottoposta in maniera reiterata a minacce e molestie, al punto di generare nella stessa un fondato timore per la propria incolumità, un grave stato di ansia e di paura. Lo stalker è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi.

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