«Non disprezzate la sensibilità di nessuno. La sensibilità è il genio di ciascuno di noi»
(Charles Pierre Baudelaire)
Tanto per cominciare, vi dico subito che la mia storia non è finita sul giornale e neppure in tv. Credetemi, per stare come un cane bastonato è sufficiente molto meno e io l’ho provato sulla mia pelle.
Scontato dire che se mi chiamano Bicio è perché i miei quando sono venuto al mondo (febbraio 2010) hanno pensato di chiamarmi Fabrizio, proprio come il fratello di papà che è morto in un incidente con la moto neanche una settimana prima che io nascessi. Di zio Fabrizio ho visto un sacco di foto e soprattutto di video, lui era fissato con i viaggi in moto ed era veramente un figo, dico sul serio. Sono sicuro che se dietro a quella curva non ci fosse stato un coglione che ha invaso la corsia opposta perché stava armeggiando con lo smartphone, io con zio mi sarei divertito un casino. Ecco, a proposito di tecnologia, tanto per entrare a palla sul tema, gli adulti ci massacrano tutti i giorni per come usiamo gli smartphone, eppure io ho perso mio zio non per colpa del cyberbullismo ma a causa di un adulto che evidentemente non aveva la minima idea di cosa significhi rispettare la vita degli altri. Io la storia di zio la conosco a memoria, aveva trentasette anni quando il tipo lo ha ammazzato. Sapete cosa stava facendo? Non era neppure nel mezzo di una telefonata, stava leggendo un messaggio, vi rendete conto? Quando sono in auto con papà e mamma, quasi ogni due minuti qualcuno ci fa venire in mente zio, perché di gente che guida con questo cavolo di smartphone tra le mani ce n’è una valanga. Per noi ogni volta è un tuffo al cuore, a volte papà gli suona, gli fa qualche gesto, come per dirgli «Che cavolo stai facendo? Lo sai che per una cosa del genere si può morire?» Ma tanto serve a poco. Io da questa tragedia ho imparato una cosa in particolare e cioè che non esistono degli incidenti intelligenti. Gli incidenti in macchina, con lo scooter, il monopattino o la bicicletta, sono sempre figli della stupidità, piccoli gesti che sembrano innocui, invece non è così che stanno le cose. Personalmente anche quando prendo la bici non uso lo smartphone. Vi dirò di più, lo evito anche quando devo attraversare la strada o vado a piedi ma di fretta. Esagerato? Molti di voi lo staranno pensando, ma se in famiglia, e non ve lo auguro, dovesse capitarvi quello che è capitato a noi, capireste che più che esagerato io mi sento furbo e attaccato alla vita. Non mi vengono altre parole, ma uno che ci tiene alla propria pelle e a quella degli altri, secondo me è innanzitutto furbo. Potrei farvi un elenco di situazioni lungo un chilometro per quanto concerne le cagate che hanno fatto e che spesso fanno i miei amici. Lele è uno che guida lo scooter con il telefono infilato tra casco e orecchio, Lima usa gli auricolari ma non è che la situazione migliori più di tanto, perché se guidi e parli al telefono o senti la musica, per forza ti ritrovi catapultato dentro una realtà parallela. Ma adesso basta, sennò passo per il grillo parlante e poi tra l’altro la storia di cui voglio parlarvi è sempre legata all’uso demenziale che a volte facciamo della tecnologia, ma non mentre siamo in movimento, anzi, pensandoci bene nel mio caso i danni li hanno fatti mentre erano seduti nelle loro stanzette. Preciso subito una cosa, quelli che mi hanno procurato un dolore profondo mi hanno chiesto immediatamente scusa e non lo hanno fatto perché obbligati dalla Dirigente Scolastica o dalla famiglia, ma proprio perché si sono resi conto della stupidata che avevano commesso. Sembra una questione di poco conto, invece per me è stato importantissimo poter chiarire la cosa, mi sono sentito meno solo, brutta storia quella della solitudine, magari ne discuteremo prima o poi. L’altro grande tema amici miei è legato al non rendersi conto delle stupidate che possiamo commettere in meno di un nano secondo. Perché le commettiamo? Mica è complicato trovare una risposta, ve lo dico subito: perché siamo così rimbambiti che ci dimentichiamo degli altri e soprattutto le azioni commesse con uno smartphone tra le mani non sembrano poter far danni. In fin dei conti mentre fai un meme offensivo o insulti qualcuno in chat, è come se non esistesse, invece è esattamente come te. Capite cosa voglio dire? Gli altri ci assomigliano un casino. Ci piaccia o no, è così che stanno i fatti. I famosi “altri” possono stare da cani come noi, si offendono come noi, hanno mille problemi come noi. Grassi, neri, bianchi con o senza occhiali sono come noi, posso giurarlo. Ve lo garantisco, ma se ce lo dimentichiamo, ecco che allora sono casini grossi. Oh, non è che anche in questo caso i grandi ci regalino esempi meravigliosi. Io sento i miei che sono sempre incacchiati perché viviamo in un mondo pieno di ingiustizie, per non parlare delle guerre e della violenza in generale, ma questo a noi ragazzi deve servirci da stimolo, invece che stare a piangerci addosso dobbiamo essere i primi a immaginare un mondo un po’ più decente. Utilizzo il verbo immaginare perché tutto parte da lì, prima sogni una cosa e poi la realizzi, prima pensi e poi agisci. Invece avete compreso quello che è mancato a chi mi ha ferito? Loro hanno invertito le cose, prima hanno agito e poi hanno pensato, ma non funziona così. A giugno ho finito la prima superiore, frequento un istituto tecnico gigantesco, di quelli che dopo la prima settimana di scuola ancora non avevo ben capito come raggiungere la mia classe. Diciamo che la mia scuola sembra un grande formicaio, pensate che siamo quasi duemila, roba che neppure il paese dove vive nonna Ada si sogna tutta questa gente. Per me è stato un anno disgraziato, molto disgraziato. Io gioco a calcio e a novembre, mentre ci allenavamo, mi sono distrutto un ginocchio. Porca miseria ragazzi che dolore, non potete immaginare, piede piantato nel fango e ginocchio che ruota su sé stesso. Vi risparmio il rumore che ho sentito e subito dopo il dolore lancinante che mi è salito fino al cervello, roba da svenire. Ho iniziato a piangere come un bambino e nel frattempo mentre ero sdraiato a terra mi palpavo il ginocchio rendendomi conto che c’era qualcosa che non andava nella sua forma. Paura? Anche, ma soprattutto dolore e neppure il tempo di pensare alle conseguenze di tutto ciò. Dopo neppure mezz’ora ero in ospedale, mi hanno accompagnato l’allenatore e Mirco che è un po’ l’uomo tuttofare della società. Io li vedevo che erano scossi e questo non mi rassicurava per niente. Nel tardo pomeriggio sono poi arrivati i miei, sono figlio unico e potete ben comprendere quanto siano premurosi nei miei confronti, forse anche troppo. Diciamo che poi la tragedia di zio li ha resi ancora più apprensivi. Due giorni dopo quel cavolo d’incidente sono finito in sala operatoria, non descrivo l’elenco dei danni che mi sono procurato perché sennò questa storia diventerebbe un trattato di medicina e comunque già sapevo che a questo intervento ne sarebbe dovuto seguire un altro verso febbraio. Io la parola depressione l’avevo sentita pronunciare qualche volta e mai avrei immaginato di poterla sperimentare in prima persona. Cerco di spiegarmi meglio, aprivo gli occhi la mattina e venivo subito preso d’assalto dall’angoscia, ogni giornata mi sembrava una montagna da scalare a mani nude. È bruttissimo, credetemi. E adesso parliamo della parte bella della rete e dei social, perché, come ho scritto, dopo l’intervento sono caduto dentro una crisi profonda. Nel giro di un secondo mi sono trovato a non poter fare più nulla. È bastato un attimo. Niente scuola, niente calcio, niente amici, porca miseria ragazzi se è pesante una cosa del genere. Almeno quando c’è stato il lockdown eravamo tutti dentro casa; invece, lo scorso inverno io ero fermo mentre il mondo continuava a girare a mille. La parte bella del web e dei social sono i compagni, soprattutto quelli del calcio, che ti tengono informato, ti raccontano, ti girano i video delle partite e soprattutto cercano anche di farti fare due risate. La parte bella del web è anche quella legata allo studio, perché dopo i primi sedici giorni di ospedale (che non finivano mai), da casa ho potuto seguire le lezioni da remoto. Certo che non è la stessa cosa e poi io non c’ero con la testa, vuoi per la riabilitazione che in quella prima fase è stata super impegnativa, vuoi perché rimanere concentrati dal letto di casa è veramente complicato. Il pensiero andava sempre al secondo intervento a cui avrei dovuto sottopormi durante l’inverno e solamente allora i dottori sarebbero stati in grado di spiegarmi come stavano procedendo le cose. Era una preoccupazione costante, a volte mi sentivo ottimista ma la maggior parte del tempo l’ho trascorsa avvolto da uno stato di angoscia che non riuscivo ad allontanare. La rete è stata fondamentale in quel periodo, forse a dire il vero passavo anche troppo tempo di fronte allo smartphone senza neppure un motivo preciso, tanto per ingannare il tempo, ma alla fine tutta quella esposizione finiva con il togliermi forze e concentrazione, solo che era più forte di me. Non è stato un bel Natale quello del 2023, l’abbiamo trascorso a casa, io con le stampelle e una gran voglia di piangere. A febbraio sono poi stato sottoposto al secondo intervento, ero agitato, tutt’altro che sereno e purtroppo il mio istinto non si era sbagliato più di tanto, perché le cose non sono andate esattamente come ci aspettavamo. I dottori ci hanno infatti prospettato l’ipotesi di un terzo intervento, molto sarebbe dipeso dalla reazione del mio ginocchio e dalla fisioterapia. Ancora ricordo quando, con un filo di voce, ho chiesto al chirurgo quando sarei potuto tornare a giocare e lui non ha saputo darmi una data, mi sono dovuto accontentare di una mezza risposta, tipo «adesso cominciamo la riabilitazione, vediamo come reagisce l’arto e poi ne parliamo, un passo alla volta». C’era poi il problema della scuola, io sono molto orgoglioso ma inevitabilmente ero rimasto abbastanza indietro rispetto al programma, oramai erano mesi che mancavo dalla classe al punto tale che non ricordavo bene neppure le facce dei compagni. A casa i miei hanno provato in tutte le maniere a tenermi impegnato ma a volte, quando sprofondi nella sfiducia, è proprio difficile tirartene fuori, è come essere nelle sabbie mobili. Resta il fatto che sono potuto rientrare in classe solamente a metà marzo. Ero una specie di pesce gettato dentro un acquario già popolato da altri, in un certo senso mi sentivo un estraneo e poi c’era un gruppetto composto da due ragazzi e una ragazza che sembravano proprio ignorarmi del tutto. Il fatto è accaduto a metà maggio, io sapevo che probabilmente sarei stato costretto a ripetere l’anno e questo era fonte di grande ansia e soprattutto di vergogna. Non era per mia colpa, ma a volte gli stati d’animo hanno poco a che fare con la ragione. Oltre al mio recupero fisico ho iniziato a convivere anche con la paura della bocciatura, continuavo a faticare molto nel trovare la giusta concentrazione nello studio e questo non faceva che peggiorare la situazione. Proprio non c’ero e questo disagio secondo me lo avvertivano anche i miei compagni di classe, solo che invece che domandarmi come stessi, preferivano risolvere il problema ignorandomi. Brutta cosa sentirsi trasparente, molto brutta. Forse nel momento peggiore di quelle giornate, probabilmente per uno sbaglio è finito nella chat di classe un meme creato da Tommy, Lea e Viro, i tre di cui ho scritto prima. Trovarmi di fronte a quel meme è stato più doloroso e angosciante del finire in sala operatoria per due volte nell’arco di pochi mesi. Tra l’altro il meme era accompagnato da una serie di emoticon sorridenti e battute di vario genere. Nel disegno erano raffigurati quattro asini che sporgevano dalla porta di altrettante classi, il titolo era “la gara dei somari”. Ogni asino aveva al collo una specie di cartello con scritto “bocciato” e il rispettivo nome e cognome. Nel mio caso, oltre alla mia identità, avevano disegnato l’asino con una gamba di legno o qualcosa del genere. Come scrivevo all’inizio, il tutto potrebbe sembrare non grave, ma solo se non teniamo conto che a quei quattro asini erano abbinati degli esseri umani. Tra l’altro Gloria, una tra i quattro asini, aveva perso la mamma da neppure sei mesi e la sua bocciatura era proprio figlia di quel dolore che ancora non riusciva minimamente a elaborare. Inizialmente, ritrovarmi raffigurato come un asino zoppo e con attorno al collo un cartello con scritto “bocciato. Fabrizio P.”, non mi ha suscitato rabbia ma dolore, solo quello. Era un marchio a fuoco sulla mia pelle. Per qualche giorno sono rimasto in silenzio mentre nessun compagno di classe ha pensato bene di far rimuovere quell’obbrobrio di cosa. Alla fine, non ho retto, e senza trovare le parole ho mostrato a papà e mamma il meme. La cosa incredibile è che mi vergognavo, mi sentivo quasi in colpa per avergli messo sotto agli occhi quella immagine così umiliante. Loro hanno trovato subito le parole giuste e quelle valgono più di mille medicine. Mi hanno fatto subito comprendere che io ero esente da qualsiasi colpa e che erano orgogliosi di me, in quanto avevo trovato il coraggio di affrontare la questione. Il giorno dopo mi hanno accompagnato a scuola ed abbiamo mostrato alla Dirigente la chat. Devo dire che è stata veramente comprensiva, in quanto per prima cosa mi ha tranquillizzato, perché poi alla fine hai anche paura di passare per spia e già immagini che l’anno successivo te la faranno pagare. Le cose invece sono andate diversamente, la Dirigente ha voluto incontrare anche il papà di Gloria e gli altri genitori. A seguire ha convocato le famiglie di Tommy, Lea e Viro spiegandogli l’accaduto e sono state loro stesse, senza cercare alcuna scusa, a chiedere alla Dirigente di poterci incontrare. Naturalmente abbiamo accettato anche con una certa soddisfazione, ci siamo sentiti compresi e questo è tanto. Ho un bel ricordo di quel pomeriggio perché dopo un certo imbarazzo iniziale, parlando con il cuore, Tommy, Lea e Viro ci hanno chiesto scusa, spiegandoci tutto ciò di cui vi ho parlato sino ad ora: non avevano messo a fuoco che noi quattro eravamo esseri viventi e non dei prodotti generati dalla rete. Lea in particolare durante l’incontro ha sempre pianto e non per paura di eventuali provvedimenti disciplinari, ma per la vergogna e il senso di colpa. Devo dire che sono uscito dalla Presidenza più leggero, tra l’altro il papà di Tommy è un bravo fisioterapista e da quell’incontro è nata anche l’opportunità di poter ricorrere alle sue cure che ad oggi, devo dirlo, sono state miracolose. Qualche volta siamo stati anche a mangiare una pizza assieme e con Tommy ora si parla di altro. Per fortuna il terzo intervento è stato scongiurato e da qualche settimana ho ripreso a corricchiare. E, se proprio la devo dire tutta, la scorsa settimana sono tornato a calciare la palla, con paura, moderazione e un po’ di ansia, ma è stato come ritrovare una vecchia amica! Finalmente sento che il periodo nero sta passando, me lo sto gettando alle spalle. Purtroppo, dovrò ripetere l’anno scolastico, ma come dice papà, non esistono anni persi o anni guadagnati, esiste una strada da percorrere nel migliore dei modi, tutto il resto si risolve. Certo che se penso a quanto successo dal novembre 2023, di cose ne sono accadute veramente tante, resta però un fatto, quel meme è stata la cosa più dolorosa che ho dovuto sopportare ed è l’unica che si sarebbe potuta facilmente evitare. L’infortunio è stato figlio del caso ed anche tutto quello che ne è conseguito, ripetizione dell’anno compresa, ma quel meme invece resta figlio di una scelta precisa e inconsapevole, per questo mi ha provocato così tanta sofferenza. Non era stato un piede appoggiato male nel fango a tradirmi, ma degli altri esseri umani, ragazzi della mia età che si erano presi gioco della mia vita e del mio piccolo grande dramma, trasformandolo in una storiella umiliante. Va bene, adesso tutto è passato, l’estate mi è servita per rimettermi in sesto sotto ogni punto di vista e, a proposito, ho convinto Lele, Lima e molti altri miei amici a non usare lo smartphone o gli auricolari quando sono in sella ad un qualcosa, scooter o bici cambia poco. Mi hanno ascoltato, hanno capito che non erano i consigli di un vecchio ma le semplici parole di unamico, quelle giuste, quelle ci aiutano a farci sentire meno soli e più responsabili.