La storia di

Branco

Boato e fischi di ragazzi che non compaiono in video ma che seguono con passione la scena, sono tutti ammassati dietro il tipo che riprende.

Ascolta questa storia raccontata da Luca Pagliari

«Il peggior peccato contro i nostri simili non è l’odio, ma l’indifferenza: questa è l’essenza della disumanità»
(George Bernard Shaw)

A urlare queste minacce contro una sua coetanea è una ragazzina con una T-shirt rosa a maniche corte. Ha i capelli ricci, indossa dei jeans scoloriti e strappati all’altezza delle ginocchia. Boato e fischi di ragazzi che non compaiono in video ma seguono con passione la scena, dal casino che fanno devono essere molti, sono tutti ammassati dietro il tipo che riprende. Sono eccitati, urlano, aspettano con impazienza la prossima mossa. Vogliono vedere bene e nella confusione spingono da dietro chi sta riprendendo la scena. «Cavolo! State fermi porca puttana!» Urla chi sta girando il video, dalla voce intuisco che anche lui è un ragazzo. È concentrato, non capita mica tutti i giorni di riprendere un linciaggio di questo genere. Certo che era stato avvisato, ci mancherebbe, tutti sapevano che ci sarebbe stata quella resa dei conti e il primo pensiero era stato quello di affidare a qualcuno il compito di riprendere la scena, il suo compito è fondamentale, documentare e poi postare il prima possibile quella sfida tra due ragazze della sua scuola. Questi sono i video che fanno i numeri, altro che le solite cose noiose. «Ho detto che devi muoverti, daiii! Sposta quel culo e cammina, mi fai più schifo di un topo!» Maglietta Rosa si avvicina minacciosamente all’altra ragazzina e finalmente il tipo la inquadra. Hanno più o meno la stessa età, indossa una camicia di jeans e dei pantaloni cargo verdi, non parla, non risponde alle provocazioni ma non si sposta di un centimetro. Sullo sfondo passa un uomo in bicicletta. È adulto, per un istante mentre osservo il filmato spero che scenda di sella e metta fine a questo inizio di linciaggio. Non è difficile capire che la violenza potrebbe esplodere da un secondo all’altro, invece niente, proprio perché comprende che c’è qualcosa nell’aria si allontana come se niente fosse. Oggi funziona così. Maglietta Rosa adesso è a un palmo dall’altra ragazza, sono viso contro viso, il pubblico è in visibilio perché avverte che finalmente dalle provocazioni verbali si sta per passare ai fatti. Tempo due secondi e Maglietta Rosa, senza preavviso, molla con la mano destra uno schiaffo in pieno viso all’altra ragazza che per qualche istante barcolla. Il rumore dello schiaffo è secco e potente, devastante. Il pubblico esplode in un urlo liberatorio, il vero spettacolo inizia ora. Dopo lo schiaffo Maglietta Rosa spinge forte sul petto Camicia di Jeans che barcolla e comincia a camminare all’indietro, le due avanzano lentamente lungo questo viale che mi sembra alberato, non è una zona di periferia, si sentono in lontananza anche delle auto che passano. La processione avanza lentamente. Camicia di Jeans indietreggia e Maglietta Rosa continua a insultarla camminandole di fronte. Il ragazzo col telefonino ora le riprende quasi interamente e il frastuono alle sue spalle continua a crescere. Urlano di tutto: «Ammazzala! Strappale i capelli!» E poi lentamente sale un coro ripetuto più volte… «Deviii Morireee! Deviii Morireee!» Forse perché gasata da quel tifo da stadio, Maglietta Rosa rifila alla sua coetanea altri due schiaffi, uno con la sinistra e l’altro con la destra. Camicia di Jeans questa volta prova a reagire e tenta di aggrapparsi ai capelli di Maglietta Rosa che però sposta rapidamente la testa e rifila un calcio violento all’altezza del ginocchio alla sua contendente. Il colpo è forte, altra esplosione entusiastica della platea. Camicia di Jeans accusa, le esce un gemito e per un attimo appoggia le mani a terra piegandosi su se stessa. La telecamera dello smartphone si muove, rotea e per un attimo inquadra la gente alle sue spalle. Saranno una quindicina di adolescenti, più o meno hanno tutti lo zaino e da questo deduco che il fatto stia avvenendo all’uscita di scuola, hanno facce accaldate, ridono, urlano e se uno non conoscesse il motivo di tale eccitazione potrebbe pensare che stiano facendo il tifo a una manifestazione sportiva, non per un linciaggio vero e proprio. Maglietta Rosa compie un’altra cosa orribile, sputa per due o tre volte in faccia alla sua rivale che non batte ciglio e poi smette di camminare. A quel punto scatta lo scontro diretto, massima espressione dell’odio che finalmente può trasformarsi in graffi, feroci tirate di capelli, urla, calci e quant’altro. Il corpo a corpo dura per trenta interminabili secondi. La platea è in visibilio, urlano e ridono come pazzi incitando le due a picchiarsi, tutto sommato non fanno il tifo per nessuna, sono solo interessati al fatto che se le diano di santa ragione, perché è attorno a questo che si sviluppa lo spettacolo. A nessuno viene in mente di fermarle e di mettere fine a quello spettacolo agghiacciante, sarebbe come interrompere un match di boxe o un film d’azione giunto alle sue scene più spettacolari. Alla fine, Maglietta Rosa si ferma, respirano affannosamente e hanno entrambe dei graffi, Camicia di Jeans perde sangue da una guancia. Maglietta Rosa prende fiato e senza perdere troppo tempo guarda la sua avversaria negli occhi e le dice queste parole: «Ora brutta puttana ti metti in ginocchio e mi chiedi scusa davanti a tutti, sennò ti ammazzo!» Altro boato da corrida, siamo arrivati quasi alla resa dei conti definitiva, all’umiliazione massima, alla devastazione totale di Camicia di Jeans. La ragazza è frastornata e titubante ma non piange, sembra decisa a non mollare, poi improvvisamente si mette in ginocchio di fronte a Maglietta Rosa. Non chiede scusa ma resta in ginocchio fissando l’asfalto. Boato, qualcuno spintona chi fa le riprese, altre urla e poi il filmato s’interrompe. Game over, lo spettacolo si è concluso con un vinto e un vincitore, il pubblico ha tante cose da raccontare a chi si è perso il combattimento e soprattutto la platea non vede l’ora di potersi rigustare quelle scene attraverso il video. Quando mi rendo conto che il filmato è terminato tiro quasi un sospiro di sollievo, e dire che gli amici della Polizia Postale mi avevano già preparato alla visione di questo indescrivibile linciaggio. Appoggio lo smartphone sulla scrivania, ne ho visto a sufficienza. Fatico a trovare una spiegazione, provo quasi un senso di vuoto e di sconforto non tanto per Maglietta Rosa e Camicia di Jeans e neppure per la platea inferocita o per chi ha fatto le riprese. Provo un senso di sconforto nei confronti dell’umanità e della nostra incapacità di crescere. Tra quello che ho appena visto e quanto accadeva all’interno del Colosseo c’è una grande differenza? Dove si nasconde l’evoluzione della specie? La tecnologia ci sta aiutando ad essere persone migliori oppure no? Mi passa per la mente qualche verso di Wistawa Szymborska, poetessa polacca premiata con il Nobel per la letteratura nel 1996. «Guardate com’è sempre efficiente, come si mantiene in forma nel nostro secolo l’odio. Con quanta facilità supera gli ostacoli. Come gli è facile avventarsi, agguantare. Non è come gli altri sentimenti. Insieme più vecchio e più giovane di loro. Da solo genera le cause che lo fanno nascere. Se si addormenta, il suo non è mai un sonno eterno. L’insonnia non lo indebolisce, ma lo rafforza. […] È un maestro del contrasto tra fracasso e silenzio, tra sangue rosso e neve bianca. E soprattutto non lo annoia mai il motivo del lindo carnefice sopra la vittima insozzata. In ogni istante è pronto a nuovi compiti. Se deve aspettare, aspetterà. Lo dicono cieco. Cieco? Ha la vista acuta del cecchino e guarda risoluto il futuro. – lui solo.» Mi domando un’altra cosa: quanto è stato importante aver documentato con uno smartphone quell’episodio? Quanto è stato eccitante sapere che quel video avrebbe fatto numeri altissimi? Maglietta Rosa sapeva che la scena sarebbe stata ripresa, tutto era organizzato, una specie di imboscata nei confronti di Camicia di Jeans, lo definirei un raid punitivo. Ebbene, quanto avrà inciso la sua voglia di mostrarsi attraverso il video, forse la mattina avrà scelto con cura l’outfit migliore, probabilmente avrà optato per il rosa in quanto le regalava un bel contrasto con la sua pelle abbronzata color mogano. Probabilmente. Io come al solito non sono depositario di nessuna certezza, affido a voi che state leggendo il compito di trovare qualche spiegazione plausibile. Quel terribile fatto è avvenuto in un piccolo paese e inevitabilmente, una volta che il video ha fatto la sua comparsa sui social, si è trasformato in un caso nazionale. Per un paio di giorni la notizia aveva tenuto banco su giornali e telegiornali per essere poi rapidamente dimenticata da questo mondo che ha una memoria sempre più breve e che quasi mai è capace di soffermarsi sui perché. E sono tante le domande che, dopo aver visto il video, mi attraversano la mente. Chi ha postato il filmato come poteva non immaginare che si sarebbe sollevata una tempesta mediatica? Possibile che nessuno avesse preso in considerazione gli inevitabili provvedimenti che la scuola avrebbe dovuto adottare? Eppure, non ha resistito alla tentazione di renderlo pubblico. Che prezzo siamo disposti a pagare in cambio di un briciolo di popolarità? Perché nessuno, compreso l’uomo che è passato in bicicletta, ha trovato il coraggio di mettere fine a quel combattimento? Siamo veramente così crudeli? La Dirigente dell’Istituto aveva sospeso per qualche giorno tutti gli studenti coinvolti in quella brutta vicenda, ma al di là dell’aspetto punitivo si era sentita in dovere di avviare una riflessione forte su quanto accaduto. Un mio caro amico che al tempo prestava servizio presso la Polizia Postale, contattato dalla stessa Dirigente, mi chiede se sono disponibile, assieme a lui, a recarmi in quel piccolo paese per incontrare tutti gli studenti della scuola coinvolta in quell’episodio. Naturalmente accetto. Giornata di pioggia e di temporali, dall’aeroporto più vicino impieghiamo oltre due ore per raggiungere la cittadina. L’istituto scolastico si trova nel cuore del centro storico e mentre arriviamo riconosco il viale dove è avvenuto il fatto. Ad attenderci all’ingresso della scuola ci sono dei Professori, la Dirigente e persino il Sindaco. L’aula magna è già strapiena, tra loro ci sono tutti i ragazzi che quel giorno erano presenti al fatto, sono mescolati al resto degli studenti. L’episodio ha coinvolto principalmente una prima superiore ma la Dirigente ha voluto che a questo incontro partecipassero tutti. Scelta più che giusta. Prima che inizi l’evento, un docente mi spiega che il motivo scatenante della rissa è legato ad un fatto di gelosia. Sembra che Camicia di Jeans avesse osato fare gli occhi dolci al ragazzo di Maglietta Rosa o qualcosa del genere. Le due si erano anche lanciate messaggi carichi di odio attraverso delle chat ed è così che, giorno dopo giorno, la tensione era continuata a salire per culminare poi nel tristemente famoso agguato. Ragioniamo insieme su quanto contino poco le motivazioni, rispetto all’accaduto. Fuori diluvia ma le finestre rimangono semi aperte per far circolare un po’ d’aria. So benissimo che in quella giungla di ragazzi dalle felpe colorate e sneakers consumate ci sono anche Maglietta Rosa e Camicia di Jeans, ma questo non cambia nulla. Quelle due ragazzine quattordicenni sono un semplice simbolo, quasi una metafora. Rappresentano l’effetto di un mondo gravemente malato che è capace di osservare per ore un display senza essere in grado di alzare lo sguardo verso l’altro. Non sono un sociologo ed evito accuratamente riflessioni che non mi competono, però sono convinto che le storie ci aiutino a capire un po’ meglio il corretto funzionamento dell’esistenza, io mi limito a questo. Ed è così che in quell’aula magna scende improvvisamente un silenzio denso di pensieri. Non faccio neppure un accenno al fatto accaduto nel loro paese e questo spiazza tutta la platea. Non dico che quanto è avvenuto è gravissimo e neppure che lo smartphone deve essere usato correttamente. Non sono lì per processare o giudicare qualcuno, sono lì per raccontare. È una storia di solitudine e di crudeltà quella di cui parlo per oltre un’ora, di veleni riversati addosso ad una ragazza tredicenne attraverso le chat e i social. Conduco l’intera aula magna a visitare la sofferenza di Alice, le sue inquietudini e il desiderio di mettere fine alla sua vita che per fortuna è rimasto solo un pensiero senza trasformarsi in azione. È un viaggio nel dolore. Le avevano appiccicato sulla pelle il marchio di essere una “ragazza facile” solo per un semplice motivo: Alice non aveva accettato di sottostare alle regole di un piccolo branco di bulli che poi negli anni, purtroppo per loro, si sono trasformati in delinquenti ben noti alle forze dell’ordine. I ragazzi in platea durante la narrazione possono sfiorare il dolore provato dalla mamma di Alice e soprattutto si trovano a fare i conti con l’indifferenza dei suoi compagni. Ricordo il silenzio di quella mattina, un silenzio che poi si è trasformato in lacrime nell’attimo in cui Alice, bella, fiera, sorridente è salita a sorpresa sul palco accanto a me. Nessuno sapeva che fosse presente. È un colpo al cuore per tutti. È la realtà che si materializza rubando la scena alle parole e ai filmati. L’incontro è durato oltre due ore ma sarebbe potuto continuare ancora. Al termine l’aula magna si svuota in silenzio, in parecchi tentennano ma alla fine il coraggio sconfigge la timidezza e Alice viene sommersa da una foresta di abbracci, braccia tese che la stringono, lacrime che si mescolano a parole che sprigionano una dolcezza infinita. Alcuni rientrano nell’aula magna perché anche loro vogliono farle sentire il proprio affetto e finalmente l’essere umano in quella mattina dimostra di essere all’altezza di sé stesso. Osservo la scena, chissà se anche Camicia di Jeans e Maglietta Rosa hanno trovato la forza di avvicinarsi ad Alice, chissà cosa avrà provato chi quel giorno registrò il video e chi era alle sue spalle a fare il tifo. Chissà? Salutiamo il Sindaco, la Dirigente Scolastica e soprattutto Alice e sua mamma che quella mattina per esserci si sono dovute mettere in viaggio all’alba. Prima di fare rotta verso l’aeroporto, io e il mio amico della Polizia Postale ci andiamo a prendere un caffè in un bar che è quasi di fronte alla scuola, fortunatamente ha smesso di piovere ed è persino spuntato un incerto raggio di sole. Siamo al banco del bar e, mentre commentiamo la mattinata, con la coda dell’occhio vedo un ragazzo alto, capelli neri corti, con la tuta e lo zaino in spalla che ci osserva. Ho l’impressione che ci aspetti e infatti appena usciamo con un filo di voce ci chiede se può rubarci qualche secondo: «Io questa mattina ero nell’aula magna, beh, molte cose non le avevo ancora capite bene ma adesso è diverso. Ecco, io sono quello che quel giorno aveva il telefonino e ha fatto leriprese. Adesso mi vergogno. Vedere Alice, ascoltare la sua storia. Non riesco proprio a capire perché io lo abbia fatto, eppure non è difficile comprendere quanto sia stato un gesto da stupidi e da vigliacchi. Non ricommetterei più un errore del genere. E comunque ci tenevo a dirvi grazie». Finisce di parlare con un filo di voce e senza trovare mai la forza di sostenere il nostro sguardo, poi se ne va camminando lentamente. Non commentiamo, c’è poco da aggiungere. Sappiamo che non è l’unico ad aver capito, ma la sua testimonianza ci regala energia e consapevolezza. Dobbiamo continuare a seminare e continuare a raccontare, perché le “buone storie”, se sappiamo ascoltarle, ci rendono sempre persone migliori.

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