La storia di

Red

Io immaginavo che il vuoto potesse essere riempito da altrettanto vuoto, pensavo tante cose a dire il vero e poi improvvisamente tutto è crollato.

Ascolta questa storia raccontata da Luca Pagliari

«La vanità è una sabbia mobile per la ragione»
(George Sand)

Da quando ho scritto queste parole sono passati esattamente diciotto mesi e rileggerle è come ricevere un pugno nello stomaco, una passeggiata a piedi nudi sopra i carboni ardenti. Eppure allora ero il primo a esserne convinto, mi sentivo il padrone del mondo, perché il mio universo non prevedeva regole e responsabilità. Immaginavo che il vuoto potesse essere riempito da altrettanto vuoto. Pensavo tante
cose, a dire il vero, e poi improvvisamente tutto è crollato, comprese le mie convinzioni e quella smania di volare sempre più in alto di tutti.
La cosa che fa più male è voltarsi indietro e scoprire che quel quattordicenne non ha più nulla a che fare con ciò che sono oggi. Come se osservassi la vita di un estraneo attraverso un vetro che mi rende invisibile, io vedo lui ma lui non vede me. Urlo ma non può sentirmi, mi sbraccio ma non mi bada. Lo imploro di non fare certe cose, ma è come parlare al vento. Il passato non si cambia, è inciso nel tempo,
è la nostra storia, è la mia condanna.
C’è sempre un inizio, un punto di partenza, e nel mio caso corrisponde all’attimo in cui Modi (è l’inizio del suo cognome) mi ha whatsappato chiedendomi se avessi voglia di costruire una challenge assieme a lui. Tutto andava pianificato in maniera perfetta, dalla scelta del tema al lancio attraverso le stories, alla diretta. «Per quella c’è tempo» aveva detto Modi con il tono convincente di chi la sa lunga.
Passammo interi pomeriggi saltando da un social all’altro per capire quali fossero le challenge che funzionavano meglio e arrivammo a una conclusione; per fare numeri avremmo dovuto compiere azioni che “acchiappano” e ti tengono col fiato sospeso. Le cose noiose non interessano a nessuno, e neppure le solite menate zuccherose dove si parla di amore e di bontà. «Ci vuole il sale, Red! Senza sale un reel non funzionerà mai!» Secondo Modi, con qualche azione azzeccata e un po’ di “sale” nel giro di poco ci saremmo trovati a guadagnare un bel po’ di soldi.

Generazione Z e generazione Alpha, era lì che dovevamo andare a catturare follower. Tra quelli come noi. Modi diceva che eravamo dei perfetti digitarian, nati col display connesso al cervello e la tastiera alle mani, sarebbe bastata un po’ di fantasia mescolata ad altrettanto coraggio e avremmo fatto la differenza.
Vivo nella zona residenziale di una città del nord-est (Veneto) e per tutti, fin dai tempi delle elementari, visti i miei capelli rossi, che poi non sono rossi ma arancioni, io sono semplicemente Red. Il primo smartphone l’ho avuto a dieci anni, adesso però i genitori li regalano anche prima; anzi, a dire il vero vedendo dei bambini di quattro anni parcheggiati nel passeggino con un tablet in mano penso che non ci sia neppure più un’età in cui si comincia a smanettare. Secondo me non te lo regalano più, te lo danno in mano insieme al biberon e ci cresci, questo però è un problema che non mi riguarda.Ricordo che quando papà e mamma me lo hanno comprato, dicevano che doveva servire solo per le cose importanti e per farli stare tranquilli.
Poi era stato zio Gianni a farmi un predicozzo enorme sui rischi che si sarebbero potuti incontrare online. Bla, bla, bla… le solite cose che avevo già sentito un milione di volte. Feci finta di ascoltare, tanto sapevo che dopo dieci minuti anche lui si sarebbe scordato di tutte quelle raccomandazioni. Per quanto riguarda i miei genitori e il mondo digitale è meglio lasciar perdere. Erano appena in grado di dare una scrollata ai social, usare whatsapp e scattare una marea di foto inutili. Ogni tanto, quando il telegiornale sparava una news su qualche casino nato dal web, puntualmente mi dicevano di stare attento, quello era il loro momento di massimo interesse nei confronti del mio rapporto con lo smartphone.Poi, cosa fondamentale, non gli ho mai dato le password di accesso, e le poche volte che mamma mi ha chiesto di vedere la chat di classe io le ho messo sotto il naso quella ufficiale, dove ci scambiamo informazioni e programmiamo
compiti e interrogazioni. Col cavolo che la facevo entrare in quell’altra, quella che avevo creato con Modi.
Papà è caporeparto in un’azienda che produce imballaggi e nel tempo libero si gode la sua grande passione: il padel. Da un paio d’anni si è intrippato con questo sport, che onestamente a me non fa neppure impazzire, e comunque contento lui contenti tutti; tranne mamma, che spesso si lamenta, perché dice che per papà è più importante il padel della famiglia.

«Red, secondo me per fare il botto dobbiamo iniziare a fare delle prove girando qualche challenge semplice. Cavolo ne so, tipo riprendere di nascosto i prof quando spiegano e realizzare dei video comici. Tanto online funzionano solo le cose che fanno ridere, oppure quelle violente, o che fanno schifo».
Non ho la minima intenzione di addossargli delle colpe, ma di certo ero affascinato dalle parole di Modi, e poi l’idea di sfidarmi nel riprendere i prof di nascosto mi metteva addosso una bella dose di eccitazione. Ho scoperto che si chiama scarica di adrenalina, ma non chiedetemi che cosa voglia dire perché non lo so. Di certo è una cosa che mi faceva sentire vivo, perché comunque il rischio di essere beccati era sempre presente.
All’inizio ce la facevamo sotto: non è mica facile riprendere tenendo il telefono nascosto. Ma poi prevalse la voglia di alzare il livello di rischio. Un giorno che quella di mat aveva la gonna siamo persino riusciti a riprenderle le mutande. Quel video ha spaccato.
Consideravamo tutto questo una specie di allenamento, nel frattempo però i nostri video cominciavano a girare nei gruppi whatsapp. La challenge consisteva nel fare qualcosa di sempre più estremo. Eravamo convinti che, qualsiasi azione tu compia, se non la riprendi sei un coglione. Mi spiego meglio: che senso ha fare qualcosa di figo o di rischioso se nessuno lo sa? Era questo il nostro pensiero. Il desiderio di
farci un nome era diventato un’ossessione.
Nel giro di qualche mese postammo una lunga serie di video che cominciarono a diventare virali, perlomeno nell’ambito delle scuole della città. Non avete idea di quanto si possa diffondere rapidamente un reel o uno shorts che funziona. Le nostre vittime preferite erano due o tre prof che per vari motivi si prestavano in maniera perfetta. Il prof di inglese ad esempio era super adatto perché non lo cagava nessuno, e rispondeva a qualsiasi domanda noi gli facessimo, tipo: «Prof, è vero che gli inglesi non si lavano il culo perché non hanno il bidet?» Lui mica capiva che lo stavamo prendendo in giro, e molto seriamente ci spiegava che nei paesi protestanti il bidet non è diffuso, poi ci raccontava la storia del bidet dicendo che ogni tradizione è figlia di una diversa cultura. A quel punto Modi continuava a fargli domande: «E quindi gli inglesi hanno il culo sempre sporco?»
Il prof non si arrabbiava mai, semplicemente si limitava a dire che del bidet si era parlato abbastanza e che era il caso di proseguire la lezione, ma ormai il materiale video lo avevamo, perché io avevo ripreso l’intera conversazione e poi il pomeriggio ci divertivamo a montare i filmati. Una sola regola: durata massima sessanta secondi.
Funzionavano molto anche i video che dedicavamo alla prof Marena, che aveva un problema di obesità. Avevamo creato una specie di striscia intitolata “Marena la balena” e in ogni video mostravamo la sua goffaggine, accompagnandola a rumori di ogni genere.
Poi i video realizzati in classe o in ambito scolastico cominciarono a stancarci, sapevamo che era arrivato il momento di fare le cose più in grande, di metterci nuovamente in gioco.
Per sbarcare da vincenti sui social avremmo dovuto proporre video da brivido, filmati della durata massima di trenta secondi in grado di tenerti appiccicato al display sin dal primo istante.
Ora mi trovo di fronte a un problema non da poco, bel casino. Chi sta leggendo questa storia sicuramente friggerà dalla curiosità di sapere quali furono le nostre idee e come le abbiamo sviluppate. Beh, sono costretto a deludervi per un motivo preciso. Se qualcuno di voi si trovasse nella condizione mentale in cui sguazzavamo io e Modi in quel periodo, potrebbe prendere in considerazione quella cosa devastante come un virus che sia chiama emulazione. Noi non facevamo altro che ispirarci alle challenge più demenziali e pericolose, e sapete qual era la cosa assurda? Non giudicavamo le azioni in quanto tali, eravamo esclusivamente concentrati sul numero che compariva sotto il video, quello che indicava le visualizzazioni. Era la sola cosa che realmente ci interessava. Il cervello c’era andato in pappa, eravamo fusi, non esisteva più il giusto e l’ingiusto, o il bene e il male, l’unica strada percorribile per dimostrare all’universo che esistevamo ed eravamo i più fighi era avere migliaia di follower e il grano in tasca, evitando tutta la trafila che facevano quelli mediocri, i normali, e cioè lo studio, poi l’università e via decidendo.
Oggi mi sento molto più vecchio della mia età, troppo vecchio. Ho quasi sedici anni, ma quando la vita ti morde, cacchio se fa male. Sarò sincero, non sono uno che ha voglia di studiare, e terminate le superiori non mi iscriverò all’università, ma ho compreso che indipendentemente dal lavoro che farò cercherò sempre di rispettare me stesso e gli altri. La mia vita è importante, le vite degli altri sono importanti e soprattutto ho imparato a pensare, almeno ci provo, prima di agire. Lo psicologo in questi mesi mi ha fatto capire che per essere apprezzati non è necessario avere un milione di follower, e che non c’è bisogno di inventarsi supereroi o di sfidare la morte. La verità è che per essere apprezzati dagli altri per prima cosa dobbiamo guardarci allo specchio e capire che ci andiamo bene così come siamo. Con i nostri pregi, i nostri difetti e le tante fragilità, di quelle ne abbiamo tutti in abbondanza.
Insomma, nonostante i dolori della vita che mi fanno scricchiolare l’anima (non so se in realtà “scricchiolare l’anima” si possa dire, però è così che mi viene da scrivere) oggi posso dire di avere conosciuto una parte di me che ignoravo. Ora che sono tornato a scuola mi piace essere notato dai compagni per una gentilezza o un sorriso (quando riesco a sorridere), non sento più la necessità di dovermi conquistare un posto nel mondo commettendo cazzate o prendendo in giro altre persone. Troppo facile, roba da vigliacchi. Eppure per oltre un anno sono stato un’altra persona.
Allora mettetevi nei miei panni: se anche uno solo tra voi vivesse un periodo di totale stordimento simile a quello che abbiamo attraversato io e Modi, invece che comprendere l’assurdità e la follia di certi gesti potrebbe prendere in considerazione l’idea pazzesca di replicarli, e io non potrei mai perdonarmelo.
Lo so come funziona il nostro cervello, e cioè so che a volte non funziona proprio. Siamo convinti di essere lucidi, ci sentiamo fighi, immortali e pronti a sfidare il mondo, quando in realtà stiamo semplicemente passeggiando sull’orlo di un baratro. Torno alla storia. Io e Modi abbiamo iniziato a girare dei video sempre più estremi, e senza rendercene conto abbiamo perso di vista tutto. Avete presente quei bagnanti sdraiati sul loro materassino, che quando soffia il vento da terra non riescono più a tornare a riva? A noi è accaduta la stessa cosa. Eravamo alla deriva, sempre più distanti, e completamente presi dalle nostre bravate ci siamo dimenticati di guardare dove fosse la costa, oramai eravamo in mare aperto.
Si chiama punto di non ritorno.
È successo di notte, era primavera. Alle nostre famiglie avevamo chiesto il permesso di uscire un paio d’ore, giusto il tempo di sederci sullo schienale della panchina della piazzetta e mangiarci un gelato. In realtà appena ci siamo incontrati abbiamo preso la direzione opposta. Non posso dirvi dove siamo andati, ma è un luogo piuttosto normale se rispetti le regole e non sfidi la morte. Avevamo con noi gli smartphone con i relativi stick (i bastoni per i selfie) e anche una action cam fissata sul casco della bici. Stavamo per realizzare il video della svolta, quello che avrebbe cambiato le nostre vite, ed effettivamente così è stato, ma per motivi che non avremmo mai immaginato. Anche se non era difficile ipotizzarlo, ma questo lo dico oggi, seduto di fronte al tablet nella mia cameretta.
Era una sfida che avevamo studiato in ogni dettaglio. Ci sentivamo pronti e invincibili, mentre eccitazione e paura si mescolavano tra loro.
Quella notte qualcosa è andato storto, è stata una frazione di secondo. Ricordo le mie urla disperate, mi sembrava di essere finito in un film dell’orrore. Io che corro cercando aiuto e cado dalla bici due o tre volte, per quanto sono sconvolto. Modi non urlava, Modi non si muoveva, Modi non rispondeva, Modi era sdraiato a terra in una posizione innaturale, sembrava un manichino rotto. Il colpo era stato fortissimo. Ecco, questa era la nostra challenge, doveva essere l’inizio di qualcosa ma invece era stata solamente la fine di tutto.
Quella notte terribile sono riuscito a fermare un’auto sulla tangenziale, roba che finisco investito, perché praticamente mi ci sono piazzato davanti facendola quasi inchiodare.
Con parole confuse ho spiegato che un mio amico era grave, e quel signore per prima cosa mi ha domandato come mai non avessi già chiamato i soccorsi visto che avevo lo smartphone agganciato al manubrio della bici. Gli risposi la verità, e cioè che ero talmente scioccato da non averci pensato. Tutto quello che ero stato in grado di fare era correre, scappare, urlare cercando qualcuno. Sembra incredibile ma è così che stanno le cose: io che dello smartphone pensavo di sapere tutto e di conoscerlo come la mia ombra, alla prima occasione in cui avrei potuto utilizzarlo utilmente mi ero dimenticato di farlo.
Assieme a quel signore che non smetterò mai di ringraziare abbiamo raggiunto Modi, che era sempre steso a terra, non lo abbiamo toccato per paura di peggiorare la situazione e finalmente, dopo neppure cinque minuti, è arrivata una di quelle ambulanze super attrezzate per la rianimazione, con il medico a bordo.
I ricordi si fanno confusi, io seduto su un sasso che osservo la scena mentre soccorrono Modi, le luci intermittenti dei lampeggianti, qualcuno con la tuta arancione che mi chiede per chissà quante volte il numero di telefono dei miei genitori. L’ambulanza che riparte a sirene spiegate, io che vengo fatto salire su un’auto della Polizia e quindi portato io stesso in ospedale perché sono in stato di choc. Ricordo il neon accecante di un ambulatorio, un’iniezione, forse un calmante, la faccia di mamma che mi guarda dall’alto piangendo e poi il buio totale.
Da allora è passato oltre un anno. Che anno, amici miei!
Ieri sono stato a trovare Modi. Ha fatto enormi miglioramenti e ora riesce a utilizzare la sedia a rotelle in maniera sempre più disinvolta. Purtroppo non si tratta di un periodo di riabilitazione, quella sedia è per sempre, quelle ruote sono le sue nuove gambe, ed è andata bene così. Se si fosse procurato la stessa lesione qualche centimetro più su non sarebbe diventato paraplegico ma tetraplegico, cioè avrebbe detto addio non solo all’uso delle gambe, ma anche a quello delle braccia, più una serie di altre complicazioni che neppure potete immaginare.
In parole povere il resto della sua vita lo avrebbe dovuto trascorrere sdraiato in un letto, comunicando con gli altri attraverso un battito di ciglia.
Modi è stato fortunato, primo perché è vivo e poi perché ha ancora una vita davanti.
Nel corso della mia prima esistenza non mi ero mai soffermato sul senso di questa breve parola che sentiamo pronunciare mille volte al giorno: vita. Non avevo mai pensato a quanto fosse preziosa e a come basti poco per gettarla via. Io e Modi eravamo i peggiori nemici di noi stessi, ma non lo sapevamo. Il destino è stato spietato con lui, ma la stessa cosa sarebbe potuta accadere a me. Il fatto è che non esiste una regola precisa, io avrei meritato quanto lui di ritrovarmi paralizzato, ma evidentemente non era così che dovevano andare le cose.
Spesso con Modi ci domandiamo che cosa sarebbe accaduto se quella sera non ci fosse stato quel terribile incidente, e la conclusione è sempre la stessa: eravamo sbagliati a prescindere. Incoscienza? Superficialità? Rabbia? Non saprei rispondere, forse un po’ tutte queste cose messe assieme. Eravamo sbagliati in tutto. In ciò che pensavamo, nel modo di agire, nella scarsa considerazione che avevamo di noi stessi, convinti che per dimostrare al mondo di esserci fosse necessario fare chissà che cosa.
Qualche giorno dopo l’incidente sono venute fuori anche le famose chat in cui sbeffeggiavamo i professori, altro casino non da poco. Volete sapere cosa è accaduto? Il famoso professore di inglese, che consideravamo un coglione, è andato a trovare Modi nel centro di riabilitazione dove è stato ricoverato per mesi e gli ha detto che sapeva benissimo che noi lo stavamo prendendo in giro, ma lui aveva comunque cercato di rispondere sempre alle nostre domande, convinto che prima o poi saremmo cresciuti e maturati. Non immaginava che lo stessimo riprendendo, ma ha preferito non infierire. Anche la prof Marena quando ha visto i video in cui la ridicolizzavamo per il suo aspetto fisico ha deciso di non denunciare la cosa. In compenso ci ha fatto sviluppare una serie di progetti sul concetto di inclusione, diversità e uso corretto dei social. Il consiglio d’istituto ha inoltre deciso che io ripetessi l’anno scolastico. All’inizio non l’ho presa bene, ho dovuto metabolizzare la bocciatura, ma alla fine la rabbia ha lasciato il posto alla consapevolezza che gli errori si pagano.
Ho trascorso mesi d’inferno. Sensi di colpa, paura, vergogna, ansia. Tornare a un minimo di normalità è stato molto difficile e tuttora ho momenti di vuoto che mi tolgono il fiato. Non sono più convinto che i successi della mia vita si leghino al numero dei follower, conta la qualità dei rapporti. Vedo troppi coetanei che ancora misurano il valore della propria vita in base alla popolarità che riscuotono nel mondo digitale. Non è così che vanno le cose, un’amicizia vera vale tutti i follower del mondo e credetemi, non lo dico tanto per dire, ma perché tutte queste metamorfosi le ho vissute sulla mia pelle.
Il mio rapporto con i social? Molti potrebbero pensare che da quel momento abbia iniziato a odiarli, invece le cose stanno diversamente, potrei dire che da allora ho imparato a usarli. E a comprenderne il valore reale. Oggi condivido un profilo social assieme a Modi, parliamo della nostra vicenda, spieghiamo quello che la vita ci ha insegnato pagando un prezzo altissimo, abbiamo realizzato dei video in cui mostriamo che in troppi luoghi della città ci sono barriere architettoniche che rendono la vita di Modi ancora più complicata di quanto già non sia. Ecco. Questo sì che è un uso corretto del web, denunciare le cose che non vanno, creare una rete di amicizie, scambiarsi conoscenze e punti di vista, non dimenticarsi dei più fragili. Esistono tante challenge simpatiche e intelligenti, nessun pregiudizio sulle sfide, basta usare il buon senso. Discorsi da vecchio, vero? Le solite cose sentite e risentite? Vi sbagliate, sono solo i discorsi di Red. Un ragazzo dai capelli arancioni che un tempo, appena affacciato alla vita, pensava di averne compreso il senso. Usate la mia storia, parlatene, indossatela come un vestito e fatela vostra. La vita è molto più importante di una manciata di follower.

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