«Tutti parlano di quanto sia sbagliato commettere il male, ma nessuno si ritiene responsabile dell’errore di non commettere il bene. E così i mali fondamentali della società rimangono irrisolti».
(Tsunesaburo Makiguchi)
Venerdì 17 novembre
Dicono che sia una data che porta sfortuna; io non so se nel mio caso mi abbia portato fortuna o meno, però sicuramente quella giornata la ricorderò per sempre, in quanto ha segnato l’inizio di tutto.
«Giulia, a che stai pensando? Per favore, ti degneresti di ascoltare? Grazie!» Ero abituata ai costanti richiami della Gerpini, famosa prof di lettere del mio liceo, una di quelle scuole che lungo i corridoi ha appese le foto in bianco e nero delle classi di un secolo fa. Il mio liceo ne ha viste tante, durante la seconda guerra mondiale è stato persino trasformato in ospedale militare. Qualche volta ci penso, al
passato, a queste mura robuste, alle generazioni di studenti che hanno calpestato questi pavimenti consumati e riempito aule dai soffitti troppo alti.
Torniamo a noi. Gerpini quando mi richiama ha quasi sempre ragione, perché spesso io mi assento, i pensieri mi rapiscono e scivolo in mondi paralleli, neanche potete immaginarvi quanto mi piaccia sbirciare fuori dalla finestra, che è proprio accanto al mio banco. Siccome siamo al terzo piano riesco a vedere una bella porzione del fiume che attraversa la città. Ogni tanto una coppia di aironi cenerini plana su una specie di isoletta che si forma quando c’è poca acqua.
Sono eleganti e bellissimi! Neppure sapevo che si chiamassero così, me lo ha detto il prof di scienze, che è un appassionato di natura e di animali.
Certo, non posso dire a Gerpini che le sue parole svaniscono nel nulla perché sono arrivati gli aironi, eppure secondo me non sarebbe una giustificazione da poco, chi osserva la natura impara sempre qualcosa.
Quella mattina smisi di osservare il fiume e tornai a concentrarmi sulla vita di classe. Gerpini iniziò interrogando Letizia, e come sempre Leti andò subito nel pallone. Tutti sapevamo che aveva problemi nell’esprimersi, non ne conoscevamo le cause, però più di una volta avevamo sentito pronunciare parole come «psicoterapeuta» o «logopedista».
Nello scritto Letizia era molto brava, ma quando si trovava a dover rispondere verbalmente a una domanda il livello di stress aumentava, iniziava a balbettare, a fare strane smorfie e a stringersi le mani l’una con l’altra in maniera compulsiva. Mentre Letizia stava combattendo le sue paure e affrontando quella montagna di difficoltà, il mio sguardo scivolò su Lori, seduto nel banco di fianco al mio. Stava
armeggiando di nascosto con lo smartphone. Ci volle poco a capire che stava registrando un video. Lì per lì non riuscii a comprenderne il motivo, oltretutto se Gerpini se ne fosse accorta lo avrebbe spedito dritto dritto dal dirigente.
Quel famoso venerdì non accadde nient’altro di particolare e ben presto dimenticai l’accaduto. Nel frattempo la mia vita di studentessa di seconda liceo proseguiva senza sussulti, tutto sommato in classe non ero una leader ma venivo rispettata, anche dal trio composto da Isa, Cecilia e Lori. Loro si sentivano un po’ i padroni della classe, strafottenti e sempre pronti a giudicare e criticare. Penso che gruppetti
del genere siano presenti quasi ovunque, e tutto sommato l’unica cosa da fare è girargli alla larga. Meno attiri la loro attenzione e meglio è.
Difficile comprenderne il motivo, ma giorno dopo giorno Isa, Cecilia e Lori cominciarono in maniera quasi sistematica a compiere azioni che miravano a ferire Letizia. Sarebbero potuti sembrare solo dei piccoli scherzi, ma in realtà in quelle azioni c’era qualcosa di cattivo e di ingiusto. Letizia non era al corrente di molte delle cose che finivano online in varie chat, eppure era facile leggere negli occhi di quella
compagna esile un disagio che andava crescendo.
Tutti sapevano facendo finta di non sapere, me compresa. Lo so che sembra un discorso del cavolo, perché ce lo siamo sentite ripetere migliaia di volte, ma è proprio vero che girarsi dall’altra parte è più semplice. Ben presto però arrivarono le vacanze di Natale, e tra pranzi, regali e giornate in montagna con la famiglia finii con il dimenticarmi completamente di quella faccenda.
Fu verso metà gennaio che Raf, un mio amico che frequentava un’altra scuola, mentre passeggiavamo per il corso mi mostrò un video che gli era stato inoltrato. Ci rimasi malissimo. Si vedeva Letizia che ripuliva la sella della bicicletta con dei tovagliolini, e non oso immaginare cosa ci avessero spalmato sopra. La scena era stata girata fuori dalla palestra dove Leti frequentava il corso di danza. Gli autori del video non si vedevano, ma dalle risate di scherno compresi subito che gli artefici di quella carognata erano Lori
e Ceci, e forse con loro c’era anche Isa, ma questa era solo una mia deduzione, visto che agivano sempre tutti assieme.
Una cosa era certa, quei comportamenti da vigliacchi continuavano, e il gruppetto entrava in azione anche lontano dalla scuola. Raf, che comunque è un ragazzo d’oro, concluse che erano cose veramente schifose, ma erano considerazioni che tutto sommato nascevano e morivano senza lasciare traccia, semplici chiacchiere e nulla più.
In cuor mio speravo che Letizia trovasse la forza per liberarsi da quelle vessazioni crudeli, ma evidentemente, per paura di ulteriori ritorsioni o chissà per quali altri motivi, privilegiava la strategia del silenzio.
La cosa incredibile è che la vita di classe, nonostante gli episodi di crudeltà fossero quasi quotidiani, procedeva in tutta tranquillità. Era un argomento che si preferiva evitare, eppure già dalle medie avevamo affrontato i temi del bullismo e del cyberbullismo… bla bla bla. Tutta teoria! Sempre le solite frasi che avevamo imparato a memoria: «Il cyberbullismo è come il bullismo, solo che si avvale del mondo
tecnologico. Bisogna rispettare gli altri. La diversità è un arricchimento. Le parole uccidono» e via dicendo. Ma tutti questi insegnamenti dove erano andati a finire? La realtà è molto diversa dalla teoria, questo è il punto. Sono proprio mondi separati e, giorno dopo giorno, mi resi conto di quanto la nostra classe fosse lo specchio perfetto di quella società menefreghista di cui tutti parlavano, la famosa comunità che
cessa di essere tale perché dominata dall’individualismo.
Cominciai a chiedermi se fosse corretto far finta di niente e un giorno, durante l’intervallo, ne parlai con un paio di compagni, quelli con cui avevo più confidenza. Il risultato di quelle quattro chiacchiere scambiate tra la macchinetta del caffè e la palestra fu molto deludente. Ricordo nitidamente la riflessione finale di Mizio: «Vedrai che prima o poi la faranno finita. E poi se Letizia non chiede aiuto, perché
dovremmo farlo noi? Secondo me se ci mettiamo in mezzo creiamo solo un gran casino!» e detto questo tornammo in classe.
Al momento non risposi nulla, ma riflettei a lungo su quel ragionamento e molte cose a dire il vero non mi quadravano. Pensandoci bene loro se la prendevano con Leti proprio perché ne conoscevano le fragilità ed erano certi che non si sarebbe ribellata, questo era il nodo della questione. Da che mondo e mondo sono i più fragili quelli che hanno necessità di essere aiutati. Lo so, erano considerazioni scomode che non mi facevano stare serena, sarebbe stato molto più semplice accettare la teoria di Mizio e continuare a girarsi dall’altra parte, ma non siamo fatti tutti alla stessa maniera.
Pensai anche a papà, al suo lavoro di poliziotto nella squadra mobile e a tutte le volte che aveva rischiato la vita per salvare qualcuno o bloccare qualche delinquente.
Nella libreria di casa, proprio nello scaffale più basso, c’è il libro di un sacerdote che recupera i ragazzi sbandati evitando che finiscano nella rete della delinquenza. Si chiama don Luigi Merola. Ero stata alla presentazione del libro assieme ai miei genitori, e quel prete, quando gli chiesi la classica dedica, sulla prima pagina aveva scritto con la sua calligrafia decisa: «Sii sentinella del tuo territorio, tutto inizia dalla scuola». Beh, quella riga diceva tutto. Forse sarei dovuta intervenire, la coscienza mi diceva che per essere
«sentinella del mio territorio» avrei dovuto prendere una posizione e uscire allo scoperto. Ma come? Dove trovare il coraggio? Con chi avrei dovuto parlare? E il resto della classe? Mi avrebbe seguita o mi avrebbe isolata? Tante domande e poche risposte.
Per qualche giorno non riuscii a combinare nulla, rimasi completamente bloccata, ostaggio di tutti quegli interrogativi che andavano a sabotare ogni mia possibile azione, poi un giorno, terminato l’allenamento di pallavolo, ebbi una specie di illuminazione: avrei parlato con Letizia.
Approfittai del cambio dei prof tra la prima e le seconda ora per chiederle se quel pomeriggio le avrebbe fatto piacere uscire un paio d’ore con me. Prima di rispondermi mi osservò con una certa diffidenza, quasi con paura. In classe era considerata un’invisibile e forse temeva che anch’io facessi parte del gruppetto che la tormentava. Comunque alla fine accettò. Ci saremmo incontrate davanti a un bar del centro
alle cinque del pomeriggio. Quando arrivai lei era già lì, con l’ombrello chiuso in mano perché il tempo non prometteva nulla di buono. Inizialmente parlammo di tutto e di niente, della danza, della pallavolo e dei prossimi compiti in classe.
In cuor mio speravo che sarebbe stato più semplice arrivare al punto, ma non riuscivo mai a trovare il coraggio per affrontare la questione. Alla fine, dopo un bel respiro, buttai lì una riflessione dissimulando una finta casualità: «Sai, Leti, mi sembra che Isa, Cecilia e Lori siano un po’ stronzi con te. Ecco, magari sbaglio, però ci tengo a dirti che se così fosse, non devi sentirti sola. Insomma, io ci sono».
Pronunciare quelle parole mi tolse un gran peso dallo stomaco. Letizia rimase in silenzio per qualche secondo, di certo l’avevo colta di sorpresa. Io non aggiunsi altro, in attesa della sua risposta.
Era spiazzata, forse spaventata, ma dopo un sospiro interminabile mi disse: «Giulia, è da mesi che se la prendono con me. Io mica gli ho fatto niente, ma loro sono terribili. A casa vivo da sola con mamma, che ha già tanti problemi, quindi non voglio che si debba preoccupare anche di questa cosa.
Poi se ne parlassi a un prof sono sicura che loro si vendicherebbero, me lo hanno anche detto. Io comunque non ne posso più, spero solo che quest’anno finisca il prima possibile».
Letizia presa dallo sconforto cominciò a piangere in silenzio mentre continuavamo a camminare riparate dal suo ombrello, perché nel frattempo era iniziata a cadere una pioggerella fitta e sottile.
Ormai era fatta, il muro del silenzio era caduto, e quando ritrovò la forza di parlare mi raccontò tutto quello che stava subendo. Ed è così che sono venuta a sapere la cosa più grave. Con una perfidia senza precedenti, fingendosi un ragazzo interessato a lei, il gruppetto aveva convinto Letizia a inviare loro delle foto pornografiche. Nulla di particolarmente osceno, ma quel materiale era sufficiente per ricattarla.
Scoprii che ogni tanto, in cambio del loro silenzio, le avevano chiesto persino dei soldi. E una cosa ancora più agghiacciante: Lori le aveva annunciato che presto lui e un suo amico l’avrebbero invitata in un luogo segreto per “divertirsi” tutti insieme.
Non riuscivo a credere alle mie orecchie, mai avrei immaginato che la situazione, già complicata di suo, potesse avere risvolti così crudeli e drammatici.
E dire che pensiamo sempre che certe storie possano accadere solo nei quartieri degradati o nelle scuole degli altri. Mi stavo rendendo conto sulla mia pelle che anche una cosiddetta «scuola perbene» non è indenne da certi fenomeni.
Evidentemente voltarsi dall’altra parte è un atteggiamento trasversale che riguarda tutti.
Ci sedemmo sullo schienale di una panchina bagnata, tutte e due sotto l’ombrello, continuando a raccontarci le nostre vite. Mi resi conto che fino a quel pomeriggio Leti aveva avuto come sola e unica compagna di viaggio la solitudine, quella peggiore, la solitudine malata che ti esclude dal resto dell’umanità, che distrugge la tua autostima e alla fine riesce a convincerti che quella sbagliata sei tu.
Leti era rassegnata, avrebbe atteso di finire il liceo sperando poi di non dover rivedere mai più quelle persone. Avrei voluto gridare al mondo intero che non era giusto. Sentivo la rabbia esplodermi dentro, ma riuscii a controllarmi: Leti era troppo impaurita dalla situazione, probabilmente avrei solo peggiorato il suo stato d’animo. Ed è così, quando era già buio da oltre un’ora, che ci siamo prima abbracciate e
poi salutate.
Seduta sull’autobus che mi riportava a casa mi sentii improvvisamente stanca, impaurita e svuotata da tanta cattiveria. Provavo un senso di nausea, era un malessere fisico quello che mi ritrovavo appiccicato addosso. Ciò che stava subendo Leti era inaccettabile, e a farmi compagnia su quell’autobus che viaggiava nella notte c’era una sola granitica certezza: avrei agito. Questa convinzione mi regalò un coraggio e un desiderio di giustizia che non immaginavo di possedere.
Nei giorni successivi fu chiaro all’intera classe che tra me e Letizia era nato un rapporto speciale, e questo indispettì non poco il gruppetto dei tre. Incrociandomi durante l’intervallo, una mattina Lori mi salutò dicendomi: «Buongiorno crocerossina che aiuta gli sfigati!» Io finsi di non sentire e continuai a camminare.
Cecilia e Isa smisero di salutarmi, ma questo non mi spaventò, già sapevo che quando ci si schiera in difesa del più debole c’è sempre un prezzo da pagare.
Nel frattempo mi ero schiarita le idee. Per aiutare Letizia era necessario convincerla che solo denunciando quanto stava subendo sarebbe riuscita a mettere fine a quel tormento.
Neanche ricordo quante volte in quel periodo affrontammo la questione, le promisi che l’avrei accompagnata io stessa dal dirigente o da un prof di fiducia. Poi un pomeriggio, in maniera del tutto inaspettata, Letizia mi disse che avrebbe preferito non vedermi mai più, perché a lei andava bene così.
«Adesso hanno smesso di rompermi le scatole, hanno capito che stavano sbagliando. Grazie di tutto. Leti». Queste parole non me le disse a voce ma me le inviò in un messaggio. Non ci volle uno scienziato per capire che erano stati loro a convincerla, perché evidentemente mi consideravano
un pericolo.
E adesso? Come mi sarei dovuta comportare? Conoscevo bene le fragilità di Leti e le mille paure che la tenevano ingabbiata. A non farmi stare tranquilla c’era anche la richiesta avanzata da Lori di un incontro a tre in un luogo sconosciuto. Mah!
Le giornate ripresero a scorrere come un tempo e Letizia tornò a isolarsi. Una certezza però l’avevo, il gruppetto continuava ad approfittarsi delle sue debolezze, e questo lo capivo dal velo di tristezza che la accompagnava come un’ombra e dagli sguardi complici che i tre si scambiavano.
I professori non sospettavano nulla, immaginavo che attribuissero la scarsa empatia di Leti al suo carattere. I grandi poi sono sempre distratti, parlano dei giovani, emettono sentenze, giudicano e criticano, ma quasi mai si sforzano davvero di ascoltarci.
La svolta avvenne una mattina di maggio, era una giornata ventosa di sole, ero seduta nel mio solito banco quando con lo sguardo ritrovai dopo mesi i due aironi cenerini intenti a dare la caccia a qualche pesce o rana nella poca acqua che scorreva con lentezza nel fiume. Una bellissima sorpresa! Ma durante il cambio dell’ora in una frazione di secondo lessi negli occhi di Letizia uno stato d’animo che assomigliava al terrore. Mi resi conto che versava in condizioni pietose, sicuramente era accaduto qualcosa.
Accesi lo smartphone e le inviai un breve messaggio: «Oggi pomeriggio ore 17 al bar Centrale. Vieni oppure faccio scoppiare un casino». Sapevo che solo con un’intimidazione sarei riuscita a convincerla. Non era nelle mie corde agire in questo modo, ma mi sembrava di non avere altre possibilità.
Mi rispose «Ok» solo verso le tre del pomeriggio, evidentemente era stata una decisione molto combattuta.
Ogni tanto si può anche dire una bugia, e così uscii alle 16,30 con il solito borsone della pallavolo, ma invece che in palestra mi diressi verso il bar.
Anche questa volta Letizia era già lì ad aspettarmi. Mi bastò uno sguardo per capire che non mi ero sbagliata. L’istinto non mi aveva tradita. Iniziò a piangere ancora prima di salutarmi, cercai di tranquillizzarla ma inizialmente fu impossibile, riuscivo soltanto a tenerla tra le braccia cercando di regalarle un piccolo rifugio, un minuscolo riparo dalle cattiverie del mondo.
Ci volle oltre un’ora per comprendere la situazione, ma alla fine il quadro risultò molto chiaro, nella sua follia. Lori e altri due suoi amici avevano pianificato per il giorno successivo un incontro con Leti. Lui le aveva accennato che si sarebbero divertiti e che avrebbero girato un video di quelli che tolgono il fiato. Ovviamente, se lei non avesse accettato, le sue foto pornografiche sarebbero finite sui social rovinandole la vita e la reputazione. «Giulia, ho deciso che domani andrò all’appuntamento, sono terrorizzata ma forse così mi libererò di loro, non ho alternative».
Lasciai che finisse di raccontarmi ed evitai di contraddirla, poi con calma le chiesi di mostrarmi le chat contenenti le minacce e tutto il resto. Nel suo smartphone c’era tutto. C’erano messaggi chilometrici, offese, richieste di ogni genere, estorsioni. C’erano anche i video che le avevano girato di
nascosto nel corso dell’intero anno scolastico. Presi fiato e poi parlai con il tono più autorevole possibile: «Adesso io e te andiamo alla Polizia Postale e raccontiamo tutto, abbiamo centinaia di messaggi, foto e video che non gli lasceranno scampo».
Inizialmente Letizia mi diede della pazza e della traditrice, sembrava ancora più disperata di prima, ma quando le dissi che, con lei o senza di lei, sarei comunque andata alla Polizia, vista la mia risolutezza cominciò a prendere in esame quella possibilità. Le promisi che sarei rimasta sempre al suo fianco e che quella battaglia l’avremmo vinta insieme, per lei e per tutte quelle persone che non trovano il coraggio
di denunciare chi le maltratta!
«Forza, Letizia, andiamo!» Scendendo dal bus alla fermata dove si trovava la sede del COSC della Polizia Postale (Centro Operativo per la Sicurezza Cibernetica), Letizia appariva ancora smarrita, confusa e soprattutto impaurita. Provò a dirmi, con finta sicurezza: «Non entro lì dentro. Ci ho ripensato!», ma io con altrettanta sicurezza le risposi: «E io invece entro. Vuol dire che parlerò al posto tuo. Fai come ti pare!»
Avevo il cuore a mille, sapevo che senza di lei al mio fianco sarebbe stato tutto molto più complicato, ma continuai a camminare verso quel portone con passo deciso e alla fine lei mi seguì in silenzio.
Dopo un’ora di colloquio con una signora in uniforme che si rivelò gentile e comprensiva, ci raggiunsero anche i miei genitori e la mamma di Leti. Con grande calma la signora in uniforme spiegò loro per filo e per segno quanto accaduto, cercando subito di rassicurarli.
«Ora che la ragazza ha parlato» disse in tono più che convincente «il peggio è passato!»
La cosa più bella, quasi miracolosa, fu vedere l’espressione di Letizia trasformarsi di minuto in minuto. I suoi lineamenti si addolcirono, era evidente che liberarsi di quel peso enorme le stava dando i primi benefici. Tutto ricominciava a essere sopportabile.
Quando uscimmo da quegli uffici erano quasi le dieci di sera, i miei invitarono Letizia e sua mamma in pizzeria e poi tutti a casa.
I giorni successivi non furono semplici: la notizia rimbalzò sui giornali, e anche se i nomi non vennero pubblicati, tutti sapevano. In città non si parlava d’altro. Letizia visse momenti di grande stress e anch’io sinceramente mi sentii coinvolta in una vicenda più grande di me. La cosa più gratificante fu la solidarietà di tanti, in primis quella dei professori e delle altre scuole, ma anche quella di persone che non
conoscevamo.
Il gruppetto naturalmente venne denunciato. Le prove erano schiaccianti, peccato che dei tre solo Isa trovò il coraggio di chiedere ufficialmente scusa a Letizia. Non possiamo pretendere di cambiare il mondo con un colpo di bacchetta magica, intanto però qualche piccolo passo avanti lo avevamo fatto.
Il gruppetto comunque comprese che gli errori si pagano a caro prezzo. Avvocati, tribunali, servizi sociali, provvedimenti presi dalla scuola, articoli di giornale, servizi tv, haters sui social e via dicendo. Mai avrebbero immaginato di dover affrontare una tale montagna di problemi angoscianti. A parte Isa, con cui ora ho un buon rapporto, Cecilia e Lori preferirono cambiare scuola. Insomma, ne sono successe, cari amici, di cose.
Sapete qual è un altro aspetto importante? L’arroganza di chi ci rovina la vita, una volta denunciato, si scioglie come neve al sole. Facile fare i duri con i deboli, specialmente se nessuno osa intromettersi, ma quando poi si interviene le cose si risolvono sempre nel migliore dei modi. Non lo dico solo io, quella famosa sera ce lo avevano spiegato anche i signori della Polizia: «Lo scoglio più importante è sconfiggere la solitudine e la paura e trovare la forza di parlare, perché poi tutto si sistema. Devono imparare a sconfiggere paura e indifferenza anche quelli che sanno e che vedono.
Esattamente come hai fatto tu, Giulia», aveva aggiunto la signora in uniforme. Quel riconoscimento lo porterò per sempre con me.
Da quel terribile inverno sono passati due anni e ora frequento la quinta, è tempo di maturità. Letizia ha ritrovato il sorriso in pianta stabile e finalmente ha smesso di essere “un’invisibile”. Anche l’intera classe è molto maturata, abbiamo discusso a lungo dei tanti silenzi colpevoli, e quasi tutti hanno ammesso di essersi voltati dall’altra parte o di aver sottovalutato quanto stava accadendo. Siamo arrivati a
una conclusione: è impensabile nella vita non prestare attenzione all’altro. Leti sostiene che senza di me non avrebbe mai trovato la forza per uscire da quell’inferno, e in parte credo sia vero, ma non per questo mi sento speciale. Al tempo un giornale scrisse: «La studentessa eroina che ha salvato l’amica dalla violenza del cyberbullismo». Non sono ipocrita, quel titolo mi ha fatto piacere, ma io onestamente non sono un’eroina. Piuttosto mi sento una “sentinella del territorio” che ha fatto il proprio dovere. Nulla di più.